Un casinò (con l’accento, prego) a Milano? Sono secoli che se ne parla. Per un giocatore, anche se tendente all’ex come il sottoscritto, sarebbe un gran colpo. Se non altro farebbe risparmiare un sacco di tempo. Più che di soldi. Eppure Milano è in una posizione geograficamente strategica, piazzata com’è tra i quattro casinò in attività, Campione d’Italia, Saint Vincent, Sanremo e Venezia. In ordine alfabetico e, quel che più conta, di distanza dal Duomo. Una bella soddisfazione raggiungere il casinò del cuore in tre quarti d’ora (Campione), comunque in tre ore al massimo (Venezia), mica come i romani che devono viaggiare a tavoletta per il doppio del tempo. Per tacere dei napoletani e dei palermitani: altro che auto, per loro ci vuole l’aereo.
Mi ricordo che quando andavo a Saint Vincent con la mia Seicento bianca, usavo una precauzione cara a tutti i giocatori assatanati come ero io allora. Fare il pieno di benzina appena arrivato sul luogo del delitto. Perché chi ha il vizietto sa bene che davanti alla roulette, a quei tempi la slot machine era come il telefonino, doveva ancora essere inventata, non c’è fioretto che tenga: ci si gioca tutto, fino all’ultima fiche. E chi ha il serbatoio in rosso rischia, se va bene, l’autostop. Certo ci sono i cambisti, ovvero gli strozzini da casinò, che proliferano quasi invisibili nei dintorni delle sale da gioco pronti a materializzarsi appena il cliente comincia a toccarsi nervosamente le tasche alla ricerca dell’ultima banconota vagante. Basta fare un assegno e il cambista, se si fida, ma ha l’occhio clinico, gli basta un’occhiata per pesare il tuo valore, ti concede il corrispettivo in contanti. Dietro un piccolo compenso, naturalmente: per intenderci, gli firmi per millecento euro e ricevi mille. Vale a dire un interesse del dieci per cento. Al giorno. Che equivale al 3.650 per cento annuo. Mica male per A. il macellaio o M. il vinaio, per arrotondare gli introiti del negozio. E se uno non pagava? Mica siamo nei film di gangster, chi prendeva il bidone se lo teneva e stava zitto.
Ripensando ai tempi andati, sarebbe un’ingiustizia l’apertura di un casinò a Milano. Ma come, uno per una vita si è fatto su e giù mezza Italia per trovare una roulette e adesso che ha finito le velleità (e i quattrini) gliela piazzano sotto casa. Che beffa. Come se un novantenne si vedesse riaprire il casino, senz’accento stavolta. A guardar bene per i più pigri c’erano, e restano, le bische, ma più che della polizia, c’era, e c’è, la paura dei bari. Come un certo G., che sembrava un lord inglese, gli avresti comprato sull’unghia la macchina usata. Eppure, con la sua aria tanto a modo, G. era capace di tenere nascosto nel palmo della mano anche trenta o quaranta carte, ottime per un inarrestabile filotto a chemin de fer. Per tacere degli assegni cabriolet, ovvero scoperti, quando non erano rubati. Un assegno in bisca? Roba da matti, perfino un frate lo rifiuterebbe.
Quindi niente bische, anche l’azzardo ha i suoi confini. Il poker casalingo ha rotto molte più amicizie di quanto abbiano fatto le corna. Perché si parte piano, poi la puglia continua a salire e in una sera ci si può giocare un mese di stipendio. Soprattutto se non si provvede a pagare cash prima della partita. Difficile resistere alla voglia di rifarsi, chi perde venderebbe l’anima per una posta supplementare che gli consenta di prolungare l’agonia fino al mattino sperando sempre in un miracolo. I buoni propositi? Non aspettateli da un giocatore. Quante volte il vostro cronista tornando da Saint Vincent ha giurato adesso basta. Ma a Ivrea c’erano già i primi ripensamenti. A Santhià pregustava un ritorno a breve. A Novara avrebbe fatto dietrofront se solo avesse racimolato i soldi necessari.
Una cosa è certa, cari amici appassionati del Lotto.
Massimo Bertarelli
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