S’impicca in carcere l’assassino di Biella

Dopo aver violentato e perseguitato per 10 anni una giovane operaia, a novembre l’ha uccisa. Dopo il delitto scrisse: «Tu sei viva»

Andrea Acquarone

Qualcuno, adesso ancor di più, parlerà di cieca follia. Qualcun altro forse di rimorso. Probabilmente bisognerebbe trovare solo la forza di provare un po’ di pietà. Pietà per un assassino dal sorriso beffardo e allucinato, un uomo capace delle più sordide violenze, ma forse trasformato in Caino proprio dai troppi fantasmi che gli sporcavano la mente.
Ancora un mese fa, da dietro le sbarre di una cella, aveva preso carta e penna per scrivere alla sua giovane vittima. Delirando: «Perché continuano a dire che sei morta? Che ti ho uccisa. Sei viva, ti ho vista in tv, su Canale 5...».
Per Emiliano Santangelo, 33 anni, non ci sarà il giudizio degli uomini. Basta interrogatori, niente processi, dove è andato lui non servono avvocati. Né medici. Non dovrà dimostrare di essere stato solo un pazzo. Ieri ha deciso di farla finita, nel modo più classico: ha preso un lenzuolo, lo ha trasformato in cappio e si è impiccato. Non spiega di più la direzione del carcere di Biella dove era rinchiuso dallo scorso dicembre.
Era, invece, il 23 novembre quando Santangelo si fece prestare una Lancia Thema e partì dalla sua casa di Carema (Torino) per andare ad uccidere. Epilogo di un’atroce persecuzione cominciata dieci anni prima. La vittima, che abitava a Cossato, in provincia di Biella, era una giovane operaia. Si chiamava Deborah Rizzato, venticinquenne dal volto acqua e sapone. Prima la investì con la macchina, all’alba, mentre lei stava entrando in fabbrica per cominciare il turno. Poi la finì a coltellate prima di scappare verso una latitanza senza speranze. Lo catturarono i vigili, a Genova, il giorno dopo, mentre allucinato vagava per la città sulla Peugeot presa alla sua vittima. Aveva appena fatto un incidente. «Sono il cugino della Franzoni», sbraitò mentre lo ammanettavano. Poi di fronte ai fotografi sogghignò cattivo. Quasi tronfio di tanta bestialità.
Deborah Rizzato aveva vissuto la sua adolescenza nell’incubo e nella disperazione. Aveva quindici anni quando incontrò quello che si sarebbe trasformato nel suo aguzzino. Ballava in discoteca, lui le ammiccò, uscirono insieme per qualche tempo. Fino al giorno in cui Santangelo, stufo di usare le buone, decise di passare a modi ben più spicci. E la violentò.
Per questo era finito in galera, denunciato da quella ragazzina che aveva trovato il coraggio di parlare. Lui gliela aveva giurata: «Quando esco ti ammazzo». Una volta libero, dopo tre anni di galera, non smise di rincorrerla. Un giorno minacciandola, un altro chiedendole di sposarlo.
Lei era il centro del suo mondo malato, il faro di un’ossessione maniacale che si sarebbe colorata di sangue nonostante le ripetute denunce. Emiliano Santangelo conduceva una vita da sbandato violento. Lo temevano tutti, a partire dalla madre e dalla sorella, prime vittime delle sue pesanti mani da gigante cattivo. Nel corso delle udienze davanti ai magistrati si era anche parlato di un suo possibile coinvolgimento in qualche setta satanica, ipotesi questa però mai accertata.

Era considerato un disabile psichico e proprio per ciò usufruiva di una pensione di invalidità.
Dopo l’omicidio di Deborah, nemmeno la sua anziana madre riuscì a spendere per lui una parola buona. «Per me è morto», disse in lacrime. Una profezia.

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