Cultura e Spettacoli

SÁNDOR MÁRAI Il borghese anarchico

Lo stesso giorno in cui i suoi libri furono definiti «nocivi» dalla stampa ideologica del nuovo regime, Sándor Márai andò a far visita al suo editore, proprio allora espropriato della casa editrice in nome della nazionalizzazione. C’erano in magazzino una quarantina dei suoi titoli, Márai aveva allora meno di 50 anni, era un autore di successo, l’autore «borghese» per eccellenza. Era un dandy Márai, qualsiasi cosa questa parola voglia significare nelle definizioni giornalistiche affrettate e noncuranti. Nel primo dopoguerra era vissuto a Parigi, conosceva l’Europa, vestiva con eleganza, aveva avuto più donne... In breve, era il sopravvissuto di un mondo in rovina e l’emblema di tutto quello che nell’Ungheria che si apprestava a divenire comunista andava cancellato e/o rieducato. E quindi, che senso aveva rimanere in patria?
Un anno prima Márai aveva avuto la possibilità di espatriare, era stato all’estero, Svizzera, Francia, Italia, ma era ritornato. A fargli prendere questa decisione avevano concorso due elementi: la constatazione che quell’idea della letteratura come dovere, come missione, come confraternita di spiriti eletti, nell’Occidente postbellico non esisteva più. «Il Libro era mutato nella sua essenza. Tutti possedevano libri e sempre meno erano coloro che dai libri si aspettavano una risposta: aspettavano informazioni, o divertimento, o sorprese, violenze o vicende sensazionali, ma in pochi aspettavano la Risposta. Erano sempre meno quelli che credevano nel Libro... e senza fede non c’è letteratura». In Ungheria, invece, o almeno così Márai si illudeva, «si credeva ancora nel Libro» e questo era l’altro elemento alla base della sua decisione. Un elemento che si completava con la questione della lingua, e quindi della scrittura. Márai era ungherese, scriveva in ungherese e «la lingua ungherese era l’unico significato della vita»: andarsene voleva dire annullarsi, mutilarsi.
Totalitarismi a confronto
Gli ci volle ancora un anno per capire che era tutto inutile. Dalla fine del conflitto a quel 1948 in cui scelse la strada dell’esilio, il comunismo, già al potere ma non ancora definitivamente insediato, aveva cominciato a tessere la sua strategia del Ragno, soffocante, totalitaria. «Tutti i giorni - scriverà Márai - il Ragno produceva un filo» e le antiche libertà scomparivano una dopo l’altra, il controllo si faceva sempre più completo. Era una tela che invadeva non solo la vita pubblica, ma anche quella privata. «Ed era proprio questo quello che voleva il Ragno: succhiare dalle vittime tutto ciò che somigliava alla consapevolezza umana. I nazisti, in definitiva, si accontentarono “modestamente” di annientare fisicamente le proprie vittime. I comunisti volevano qualcosa di più e di diverso: esigevano che la vittima restasse in vita e che celebrasse il sistema che annientava in lui la coscienza umana e la stima di sé».
Fu per questo che Márai decise di andarsene. Nella «strategia del Ragno» lo «scrittore borghese» andava prima messo in quarantena, affamato quindi, in modo da renderlo pronto all’autocritica, ma poi era tempo che tornasse a produrre, perché niente poteva sostituire quella letteratura: non la propaganda, non l’ortodossia, non il realismo socialista... Era necessario, dunque, che gli «scrittori borghesi» riprendessero a scrivere, riveduti e corretti, rieducati, appunto. «Questo fu il momento in cui compresi che dovevo lasciare l’Ungheria. Non solo perché non mi permettevano di scrivere liberamente, ma soprattutto perché non mi lasciavano tacere liberamente. Se in questo sistema uno scrittore non rinnega tutto quello in cui è nato, è stato educato, ha creduto, ne fanno un morto vivente o un morto vero. Nelle cronache di tutti questi sistemi arriva il momento in cui, con la sua sola presenza, avalla il sistema stesso. La sua presenza giustifica la tirannia. Questo è il momento in cui non è sufficiente tacere, bisogna pronunciare un inequivocabile “no” non soltanto a parole, ma con l’azione».
Il racconto di come Márai arrivò a questo «no» è racchiuso in Terra, terra!... (Adelphi, pagg. 342, euro 17), scritto dopo vent’anni d’esilio e a trentacinque anni di distanza dalle Confessioni di un borghese, il suo primo volume di memorie sui cui torneremo più avanti. Un racconto struggente e sontuoso fatto di istantanee, montaggi, meditazioni, l’epitaffio per la fine di un mondo e di un modo d’essere, il rifiuto di accettare la legge della Storia nel momento in cui essa calpesta il suolo dove tu hai sempre camminato, la casa dove hai sempre vissuto, le tue abitudini, i tuoi gusti, le tue speranze e le tue illusioni. «In quel periodo pensavo spesso, in modo ricorrente, a una poesia di Karinthy: “Preferirei essere mangiato dai vermi/piuttosto che mangiare vermi”. Anni dopo, in terre straniere, ricordavo ancora queste parole».
Il successo post-mortem
L’oblio che avvolse Márai nel dopoguerra, e in pratica sino alla sua morte, avvenuta per suicidio a quasi novant’anni, rende perfettamente la consapevole paura con cui, in quel 1948 per lui decisivo, volse le spalle al suo Paese: «Viaggiavamo sotto il cielo stellato verso il mondo, dove nessuno ci aspettava. In quel momento, per la prima volta nella mia vita, conobbi la paura. Compresi di essere libero. E cominciai ad avere paura». E tuttavia, il nuovo successo post-mortem della sua opera, in Italia e in Europa, un successo che bissa quello da lui ottenuto in patria e fuori nel primo quarantennio del ’900, è il miglior riconoscimento di quella fede nella scrittura, di quella religione della letteratura in cui Márai credette e di cui fu un fervente officiante.
Le sue memorie Márai le aveva scritte poco più che trentenne. In fondo era in buona compagnia: de Musset ne aveva ancora meno quando pubblicò Le Confessioni di un figlio del secolo, Rebatet un po’ di più allorché scrisse Les memoires d’un fasciste... morte colse Proust intorno ai cinquant’anni, ma l’imponenza romanzata della Recherche aveva avuto inizio molto prima.
Márai non è un «grande» scrittore, ammesso che queste definizioni abbiano un senso: manca nei suoi romanzi un qualcosa difficile da spiegare ma che, a lettura finita, ti lascia deluso. A volte è un eccesso, come dire, di trama, altre di caratterizzazione all’interno di un intreccio singolarmente debole... Sia come sia, dà sempre l’impressione che stia lì lì per fare il romanzo che lo consacri e poi invece lo butti via. Confessioni di un borghese aiuta a capire il perché: da un lato c’è una bulimia frutto di un’attività giornalistica incessante, una forma di nevrosi quasi, che lo obbliga a scrivere quotidianamente, su qualsiasi argomento. Dall’altro c’è una esacerbata debolezza sentimentale, l’idea che la scrittura sia, comunque, infelicità e dolore e che alla propria debolezza non sia consentita altra soluzione che la sconfitta. Troppo intelligente per non sapere i propri limiti, non ha però quell’animalità strafottente di chi lascia libero sfogo ai propri istinti. Così è sempre frenato, mai completamente sé stesso, mai completamente libero da sé stesso.
Confessioni di un borghese fu scritto alla metà degli anni Trenta ed è l’epitaffio dolente di un mondo già in bilico e che la Seconda guerra mondiale avrebbe definitivamente buttato giù. Chiunque sia nato nel secondo dopoguerra non ha che una pallida idea di cosa sia stata la borghesia, riflesso di un’educazione paterna e materna propria ancora di un’età in cui quella classe si stava comunque avviando all’estinzione. Scomparsa la generazione dei nati fra le due guerre, non ci sarà più un testimone diretto di che cosa essa fosse, del tipo di società e dei valori da essa incarnati. Quella che noi oggi continuiamo a chiamare borghesia, spirito borghese, non è altro che la sua caricatura imbastardita, un melting pot in cui la società di massa, la proletarizzazione dei gusti, la fine delle differenze sociali ha dato forma, si fa per dire, a una indistinta realtà di consumatori senza vincoli, senza regole, senza un passato che la connoti, un presente che la giustifichi, un futuro che la nobiliti. Il libro di Márai è importante perché permette di gettare uno sguardo su cosa sia stata l’Europa prima delle guerre con cui si suicidò, come funzionassero le istituzioni, il peso e il ruolo all’interno di una famiglia, il senso dell’onore e del decoro prima che si trasformassero l’uno in stupida superbia, l’altro in stolida grettezza.
Un mondo che finisce
Curiosamente il borghese Márai, il cantore di un mondo di cui avverte la fine è, fin dalla sua giovinezza, un contestatore di quel mondo stesso. «Sono un borghese, e tuttavia mi sento a casa in qualsiasi ambiente tranne quello borghese, vivo in un’anarchia che sento come amorale, e faccio fatica a sopportare questa condizione». Tutto nella sua vita congiura a farlo ribellare alla classe di cui poi a trent’anni tesserà l’epicedio. I rituali familiari lo soffocano, la disciplina scolastica lo deprime, l’idea di un impiego lo uccide. Come tutti quelli che hanno qualcosa Márai sogna quello che gli manca. È attratto dall’informalità, dal disordine, dall’anarchia. La componente intellettuale fa il resto, staccandolo con disgusto da un’esistenza dove ogni cosa è già scritta, già regolata, già tracciata. E tuttavia gli manca quell’elemento in più che trasforma l’insofferenza in odio di classe, in volontà distruttiva. Gli manca l’ideologia, l’arma del cambiamento sociale. A Márai non interessa rovesciare la società, interessa rovesciare sè stesso. E per farlo ha bisogno che quella società resti ben salda, abbia un peso e un ruolo.
Ho scritto prima che Márai non è un «grande» scrittore. E però per certi versi è qualcosa di più. Lì dove manca il capolavoro non è mai per difetto. Non lavora mai al risparmio, spreca, spande, si danna, non si nasconde. Confessioni di un borghese è un romanzo di formazione che ne contiene altri cento, è analisi politica e psicanalisi, trattato sentimentale e antropologico. È il canto di addio di chi si rende conto che da domani nessuno canterà più: «È vero, ho visto e udito l’Europa, sono stato partecipe di una cultura. Che cosa potrei desiderare di più dalla vita? Desidero soltanto ricordare e tacere». È per ricordare e tacere che Márai scriverà Terra, terra!..., un titolo che riprende il grido del mozzo di Cristoforo Colombo quando, dalla coffa dell’albero di maestra, vide in lontananza stagliarsi la costa del nuovo continente. Nella sua scelta, combattuta, di andar via, questa idea di andare comunque «verso» qualcosa fu ciò che maggiormente lo confortò: «Bramosia di vedere la Terra, i frutti e i suoi cibi, saziarsi di odori e colori, vedere le contrade evanescenti di questa vita unica, effimera e incomprensibile. Forse quel mozzo urlante è sempre vivo dentro di noi, in tutti gli uomini: solo che qualche volta si addormenta al posto di vedetta». Márai no, lui restò sveglio.

Nonostante tutto.

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