Torna a casa dopo dodici giorni in otto capitali africane fra tappeti rossi e fanfare che hanno nascosto male risentimenti popolari verso il suo Paese, nonostante i regali che ha distribuito e le promesso che ha fatto: debiti cancellati, qui un ospedale, là uno stadio, strade, ferrovie, porti, scuole, investimenti, e, si capisce, nuovi, sontuosi palazzi presidenziali. Il capo dello Stato cinese e del Pcc, Hu Jintao, ha concluso laltro giorno alle Seychelles, col porto di Victoria punto strategico nell'Oceano Indiano, un tour del continente nero nel quale Pechino è da tempo impegnata nellacquisizione di materie prime.
Il leader del colosso asiatico, tradizionalmente a fianco dei Paesi in sviluppo col richiamo alle comuni esperienze del dominio coloniale, si è trovato sulla difensiva a proclamare che la Cina non praticherà mai il colonialismo. Lo ha fatto in Sud Africa, il cui presidente, Thabo Mbeki, ha ammonito a non replicare «rapporti di tipo coloniale»: l'invasione di tessili cinesi ha causato la perdita di 100 mila posti di lavoro. Hu ha risposto affermando che la politica cinese «non è nuovo colonialismo» e che la Cina «non farà mai nulla che danneggi gli interessi dell'Africa».
Sarà. Ma il viaggio, che segue un vertice Cina-Africa tenutosi a Pechino a novembre con 53 capi di Stato e di governo, e visite del premier e del ministro degli Esteri, corona e rilancia l'impegno cinese nella partita di caccia grossa per le risorse del continente: petrolio, gas, legname, minerali. Un terzo delle importazioni petrolifere cinesi viene dalla Nigeria, dove Pechino ha investito tre miliardi di dollari, e da Angola e Sudan: in questi due Stati, investendo sei miliardi di dollari e concedendo prestiti preferenziali, è stata la Cina ad avviare estrazioni petrolifere, costruendo anche oleodotti e porti. In credito verso tutto il mondo, con un surplus commerciale salito nel 2006 del 75 per cento a 177 miliardi di dollari, la Cina è in deficit con l'Africa da cui importa materie prime.
Gli scambi, che nel 2000 erano solo di 10 miliardi di dollari, sono saliti nel 2006 a 50 miliardi. Terzo partner del continente dopo Stati Uniti e Francia, Pechino punta ad aumentare le concessioni petrolifere e minerarie, promettendo impianti industriali, telecomunicazioni e infrastrutture; in cui però impiega soprattutto personale proprio, riservando a quello locale il lavoro più pesante e pericoloso. Vi sono oggi in Africa, con imprese statali e private, circa 80 mila cinesi.
Gli altri Paesi visitati sono Sudan, Camerun, Liberia, Mozambico, Zambia, Namibia: qui, oltre che da tappeti rossi, è stato accolto da proteste per la questione dei diritti umani; nello Zambia, da proteste per le condizioni di lavoro in imprese cinesi e per le pesanti ingerenze. L'anno scorso, cinquanta minatori sono morti per un incidente in una miniera di rame cinese: alle proteste per la mancanza di sicurezza, le guardie cinesi risposero aprendo il fuoco. Alla vigilia delle elezioni presidenziali, l'ambasciatore cinese minacciò il ritiro di investimenti se fosse stato eletto il candidato dell'opposizione, che infatti fallì. Una prevista visita di Hu Jintao alla miniera è stata cancellata.
In Sudan, che grazie al sostegno cinese respinge l'intervento dellOnu per fermare le stragi in Darfur, Hu ha toccato con prudenza questo problema, invitando il presidente Omar al Bashir a risolvere il problema. Un equilibrismo verso altri Paesi del continente nero, che hanno appena bocciato l'aspirazione di Khartum di ottenere la presidenza dell'Unione Africana, bilanciato da un prestito di 12 milioni di dollari per il nuovo palazzo presidenziale di Khartum.
La penetrazione cinese in Africa si basa su aiuti e prestiti non condizionati al rispetto dei diritti umani, alla lotta alla corruzione,come pretese invece da enti internazionali e governi occidentali.
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