Il salotto buono dell’ispirazione

Casa, dolce casa. Almeno fino a un secolo fa, al luogo comune che esalta il focolare domestico resistevano in pochi. Forse perché il leopardiano «paterno ostello» rappresentava il luogo dei ricordi, evocando patrimoni affettivi e suggestioni legate all’infanzia. O perché, nell’Ottocento, una borghesia avida di sedentarietà e sempre meno precaria aveva eletto lo spazio chiuso e privato come una specie di simbolo dell’acquisita stabilità. Fatto sta che anche gli scrittori e i poeti italiani hanno spesso scelto come location ideale della propria ispirazione quel luogo intimo e protetto dalla volgarità o dalla minaccia proveniente dall’esterno.
Già gli umanisti del Quattrocento incominciarono a vagheggiare il mito, divenuto presto tradizione, dell’ortus conclusus, scrivendo trattati familiari, riflettendo sulla bellezza classica degli ornamenti casalinghi e proiettando nella misura dell’abitazione privata i contorni delle più splendide corti signorili. Ma la percezione della dimora come topos e regno dell’intimità è tipicamente moderna. Emma Bovary e Eugénie Grandet non potevano che avviare il loro iter di fantasticherie nel chiuso di asfittiche e sonnolenti case di provincia. Né c’era luogo migliore che il microcosmo delle pensioni parigine per inaugurare la sfida e l’iniziazione cittadina del balzacchiano Eugène di Rastignac.
La laboriosa epopea borghese occupava insomma uno spazio, che non è solo lo sfondo di complesse trame narrative, ma si tramuta in un’atmosfera morale che condiziona il comportamento e la vita stessa degli uomini. Nello Zibaldone, Leopardi definiva l’esistenza domestica come «lo spettacolo della felicità»: il cortile, la camera e la finestra da cui «a salutar m’affaccio», le «quiete stanze» in cui risuonava il «perpetuo canto» di Silvia. Il cuore del poeta, cioè il dolce richiamo di un’infanzia felice, coincide con la rimembranza del proprio luogo natio, del nido (in quanto casa) paterno. L'idillio non è più da ricercare nell’arcadia di un paesaggio bucolico o selvaggio e il locus amoenus non si compone di chiare, fresche e dolci acque petrarchesche, ma di ambienti circoscritti da ben salde pareti. La casa diventa lo specchio dell’anima e allo stesso tempo riflesso dei mutamenti della società. E una traccia psicologica di chi la descrive. Come spiegare meglio la diversità di D’Annunzio e Pascoli se non ricorrendo ai loro ambienti letterari? Hanno ben poco a che spartire, infatti, le sale affrescate frequentate da Andrea Sperelli nel Piacere con gli interni rustici del nido pascoliano o magari con i caratteri goticamente morbosi dei luoghi di Malombra, il primo romanzo di Fogazzaro.
Una svolta avviene però quando la sensibilità decadente comincia a rendere inquieti anche gli spazi più intimi: il disagio novecentesco attende (è il caso di dirlo) alle porte (di casa). L’immaginario abitativo si modifica nel tempo e la cellula familiare perde via via la propria forza. Un volume curato da Maria Pagliara (Interni familiari nella letteratura italiana, Progedit, pp. 300, euro 29) indaga ora su questo processo ideologico ed estetico grazie ai contributi di vari studiosi che passano in rassegna la centralità dell’universo casalingo nella narrazione letteraria. Quella stessa casa, che pareva testimoniare la fiducia ottocentesca del soggetto, si trasforma in un indizio di crisi, in un nucleo di precarietà, di estraneità al mondo, luogo semmai di transito e non più di sosta. Come avviene sulle tele di De Chirico o di Savinio, l’habitat familiare pare deformarsi, suggerendo - il Pirandello de L’esclusa o de L’uomo dal fiore in bocca docet - nature morte fatte di tetri stanzoni e pareti ingiallite, popolate da maschere deformate e grottesche. La casa può essere tetra prigione, liquidata come una vuota scenografia o inautentico teatro della recita borghese (si pensi agli Indifferenti di Moravia). Oppure rappresentare, come avveniva nei repertori crepuscolari alla Gozzano, la malinconica decadenza di un antico decoro: le «buone cose di pessimo gusto», il salotto chermisi di Nonna Speranza, il «loreto impagliato e il busto d'Alfieri» affollano l’iconografia kitsch e posticcia di una vita borghese senza comunicazione reale e ridotta alla finzione o al simulacro della sua apparenza.
Eppure, se da un lato la casa sembra offrirsi come una silente spettatrice della nostra solitudine (gli interni ferraresi delle storie di Bassani), dall’altro può ancora costituire un legame con la vita, ricco di affetti domestici, territorio di ispirazione poetica. Una specie di paradiso d’innocenza perduto. Scrive Umberto Saba: «Io non so più dolce cosa / dell’ascosa mia dimora, / in cui tutto annuncia un’ora, / in cui tutto la ricorda». Oppure, nel momento in cui le stanze private diventano sempre più grigie e squallide in un catasto di ombre e ambiguità, l’interno familiare può essere recuperato come un’idea astratta e non fisica.

Siccome il nido è spezzato e il focolare è distrutto dalla modernità, non rimane che affidarsi a un lare immaginario e tuttavia rinfrancante. Non più «home», scriveva Montale in una lettera del 1926 a Debenedetti, ma un’«arca fatta di pochi affetti e ricordi che potrebbero seguirmi dovunque, inoffuscati».

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