A processo. Per violenza privata. Violenza nei confronti di settantacinque clandestini che erano stati salvati in mezzo al mar Mediterraneo, caricati su una nave della Guardia di finanza e riaccompagnati al punto di partenza, in Libia. Unoperazione condotta in esecuzione della legge e dellaccordo stipulato fra Roma e Tripoli. La norma parla di riconsegne e respingimenti, a seconda delle modalità, ma la procura di Siracusa utilizza un altro linguaggio, quello del codice penale. E spedisce a dibattimento, senza dover passare dal gip, il prefetto Rodolfo Ronconi, direttore della Direzione centrale dellimmigrazione e della polizia delle frontiere, e il generale delle Fiamme gialle Vincenzo Carrarini. I due rischiano sulla carta quattro anni di carcere e anche più.
È uninchiesta davvero surreale quella che arriva dalla Sicilia. Unindagine anticipata dal Giornale l8 dicembre scorso. La procura di Siracusa aveva iscritto nel registro degli indagati i componenti dellequipaggio di un pattugliatore delle Fiamme gialle, il «Denaro», che alla fine di agosto 2009 aveva intercettato al largo di Portopalo, in acque internazionali, il barcone stracarico di migranti, come li chiama la magistratura di Siracusa con un vocabolario da Caritas. I settantacinque clandestini erano stati salvati e poi affidati alle motovedette libiche che li avevano riportati a Tripoli, come previsto dalla normativa. Ma in questo modo, secondo il procuratore Ugo Rossi, fu impedito in linea teorica agli extracomunitari di far valere i propri diritti e di ottenere lo status di rifugiati politici. Ora linchiesta è finita: i militari se la sono cavata e per loro la pratica finisce in archivio. In sostanza, agirono «in esecuzione di ordini superiori non manifestamente illegittimi». Per i pm questa giustificazione non tiene invece per i vertici della catena di comando, il prefetto e il generale. Non erano, ovviamente, a bordo del «Denaro» ma sono i responsabili ultimi della politica attuata dalle nostre unità militari. E dunque dovranno rispondere di violenza privata. Rossi spiega anche puntigliosamente le motivazioni del provvedimento: «Limputazione non concerne direttamente la cosiddetta politica dei respingimenti e in particolare non attiene alla legittimità in sé degli accordi sottoscritti fra Italia e Libia». Ci mancherebbe. E allora? «Nel caso specifico - prosegue Rossi - si ritiene che il rinvio sia avvenuto senza assicurare il rispetto di diritti riconosciuti agli stranieri che, pur clandestinamente, cercano di raggiungere lItalia e sono soggetti a tutte le leggi italiane dal momento in cui sono saliti a bordo di una unità navale militare italiana in acque internazionali, equiparata a tutti gli effetti al suolo italiano». A quanto sembra, dalle carte dellinchiesta, nessuno dei settantacinque sollevò il problema, nessuno invocò lo status di rifugiato, nessuno disse nulla, ma al procuratore non basta. «Cè lassoluta convinzione - rimarca oggi il capo della polizia Antonio Manganelli - che lazione si sia svolta nel pieno rispetto della normativa nazionale e delle convenzioni internazionali vigenti in materia». Ma Rossi, che ad ottobre aveva definito «un fatto gravissimo» le parole dette da Berlusconi contro i giudici a Ballarò, la pensa in tuttaltro modo: anche se ci si trova in acque internazionali occorre distinguere e dividere i potenziali rifugiati dai clandestini a tutti gli effetti. I primi, individuati non si sa bene come in mezzo agli altri, resteranno in Italia, i secondi verranno rispediti da dove sono venuti. Che cosa avrebbero dovuto fare i militari del pattugliatore? Chiedere a ciascuno: «Lei è forse è un rifugiato?». Non solo. A leggere attentamente il ragionamento di Rossi si ricava che è stato proprio il gesto di umanità, laver accolto i clandestini a bordo di una nave italiana, ad aver fatto scattare il reato.
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