Salvati e senza gogna, ecco i cocchi dei Pm

Con Gianfranco Fini l’Italia ha scoperto un nuovo genere giudiziario: l’inchiesta con fuga dalla notizia. Eravamo abituati a un genere più trash. L’indagato che, poveretto, si accorge di essere tale dalla lettura dei giornali. Il caso più famoso resta quello del Cavaliere, raggiunto da un invito a comparire direttamente in edicola attraverso il Corriere della Sera. Ma, oltre alle fughe di notizie, scopriamo ora che ci sono anche le fughe dalla notizia. Capita, capita anche questo nel nostro sempre sorprendente Paese. Capita che i pm avanzino come un plotone di esecuzione ma può succedere che invece si facciano prendere da mille dubbi, da mille distinguo, da mille riguardi. Fino a far evaporare l’eventuale notizia di reato. Così i pm di Roma hanno iscritto l’ex leader di An nel registro degli indagati il giorno stesso della richiesta di archiviazione e naturalmente nessuno ha saputo nulla fino alla fine dell’indagine. Fini non è andato sulla graticola, nessuno si è scomodato per andare a Montecarlo, Tulliani non è stato interrogato e però nel chiudere il libro i pm della capitale fanno balenare che forse, gira e rigira, è proprio lui il padrone della casa. Straordinario.
Ma i pm di Roma non sono stati i primi a indossare i guanti bianchi. Ai tempi di Mani pulite i loro colleghi di Napoli, che di solito non andavano per il sottile, si accostarono in punta di piedi all’allora presidente della Camera Giorgio Napolitano. Il leader dell’ala migliorista del Pci era stato risucchiato in una storia di mazzette, un po’ come capitava a quasi tutti i politici con un briciolo di potere, su e giù per il Paese. Di solito, l’iscrizione, l’avviso di garanzia o le manette venivano registrati fra gli squilli di tromba dell’informazione. Si ricordano casi in cui perfino il Gabibbo aspettava sotto casa, all’alba, la cattura del malcapitato di turno. Ma con Napolitano la Procura di Napoli escogitò una variante blinda-privacy che funzionò a meraviglia. I pm scrissero il nome altisonante dell’indagato su un foglio, chiusero il foglio in una busta sigillata e la busta sigillata in un armadio corazzato. Meglio dei maestri prestigiatori. Nel registro, quello che di solito i cronisti giudiziari più scafati riescono a leggere con gli occhiali tridimensionali della loro esperienza, finì solo un riferimento criptato. Curioso: tanto garbo e rispetto furono impiegati in dosi industriali per un’indagine destinata poi ad arenarsi nel nulla. Insomma, Napolitano fu risparmiato due volte: prima dal cappio di titoli, articoli, retroscena velenosissimi, poi con una solenne archiviazione in pompa magna. Più o meno come Fini.
C’è modo e modo di tenere sotto scacco un indagato o un potenziale indagato. Ci sono stati, da Mani pulite in poi, avvisi di garanzia preceduti da preavvisi dei procuratori sotto forma di conferenze stampa mirate. Ma ci sono state anche Procure pronte, come e più dei pompieri, a spegnere a razzo l’incendio che in teoria avrebbero dovuto alimentare. È capitato a Torino con il peraltro bravissimo sindaco Sergio Chiamparino, stessa parrocchia politica di Napolitano. Nel 2002 si sparge la voce che il primo cittadino sia precipitato nel solito girone infernale degli indagati per le rivelazioni di un imprenditore. In città sono momenti di panico, ma per fortuna i pm si mettono la tuta dei vigili del fuoco e aprono gli idranti: «Alla luce delle indagini effettuate, compresi i chiarimenti odierni forniti dal sindaco, non emerge alcuna ipotesi circa un finanziamento diretto personale del sindaco stesso, essendovi, anzi, traccia del contrario». È un comunicato perfetto che uccide chirurgicamente l’inchiesta. Chapeau alla limpidezza dei magistrati, il punto è che molte volte, troppe, le indagini si portano dietro un clima di sospetti, di sussurri e veleni incontrollabili, di voci sinistre. In fondo, a pensarci bene, è lo sfondo dell’Italia, un’Italia in formato giudiziario, dal 1992 in poi. Solo che talvolta per una qualche magia ci lasciamo alle spalle quelle immagini, tipo Carra in manette che sfila per il tribunale di Milano, e ci troviamo in un presepe. E se non in un presepe in un contesto soft, ovattato, dove la giustizia ha la mano leggera. Esempi? Torna alla memoria l’arresto dell’ingegner Carlo De Benedetti nel 1993, anno centrale del triennio di Mani pulite. Siamo nell’epoca in cui la permanenza in carcere dei colletti bianchi si misura in settimane, mesi, nell’attesa spasmodica e sfiancante di un segnale da parte del giudice. Per lui, invece, il carcere ha i ritmi del Grand Hotel: ingresso al mattino, ritorno a casa la sera. Un record.
Ma, ormai, ci siamo abituati ai colpi di scena, alle interpretazioni, al non dare mai per scontato quel che ci sembrerebbe ovvio. Così le intercettazioni telefoniche del senatore Nicola Latorre, anche lui della stessa parrocchia, sono per la Procura di Milano «irrilevanti».

E la posizione dell’ex governatore Piero Marrazzo, centrosinistra pure lui, è immutabile, anche se si fa fatica a dar conto di tutti i guai combinati fra trans, coca, soldi, auto blu a zonzo: Marrazzo è una vittima. Sempre e solo una vittima di reati commessi da altri.

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