Marcello Foa
nostro inviato ad Ankara
È la Turchia che di solito non fa notizia: secolare, occidentale, nazionalista. La maggioranza silenziosa di un Paese che da qualche anno fa parlare di sé per le violenze dei fondamentalisti musulmani, per l'islamizzazione strisciante promossa dal premier Eecep Tayyp Erdogan, per le continue incomprensioni con l'Unione Europea. Quella Turchia ieri è scesa per strada, nonostante il freddo e la pioggia. Parecchie migliaia di persone si sono ritrovate a mezzogiorno sulla Piazza Tandogan, nel centro di Ankara, il crocevia da cui si raggiunge il memoriale di Ataturk, il presidente che ha modernizzato il Paese. Sono passati quasi settant'anni dalla sua morte, ma Mustafa Kamal, questo il suo nome originario, continua a essere il riferimento del suo popolo, senza distinzione di età.
Sulla piazza incroci pensionati fieri di esibire spille con la sua immagine, ma anche tanti studenti universitari provenienti da ogni regione del Paese. E moltissime donne: giovani, di mezza età, anziane vestite all'occidentale. Sono libere, consapevoli, istruite. E molto determinate. Loro le prime a intonare lo slogan che viene urlato dieci, venti, cento volte: «La Turchia è laica, resterà laica». Non criticano le connazionali che portano il velo, ma temono che un giorno possano essere costrette a indossarlo. E sentono l'urgenza di reagire, di difendere la propria identità e dunque la modernità. Molte di loro non avevano partecipato a manifestazioni prima d'ora.
Tutti diffidano di Erdogan, il premier che all'opinione pubblica interna si presenta come «un moderato di centrodestra» e che limita allo stretto necessario i riferimenti alla sua identità di musulmano osservante. «È vero, una parte della Turchia si dimostra più sensibile ai valori islamici e il primo ministro interpreta questi sentimenti - spiega al Giornale il professor Husein Bagci -. Tuttavia non gli si può certo rimproverare di aver varato riforme in tal senso. Ci ha provato, ma la struttura secolare del Paese glielo ha impedito».
Qualche dimostrante lo accusa di sostenere di nascosto le fazioni fondamentaliste, quelle a cui apparterrebbe Ibrahim Ak, l'estremista che giovedì ha sparato tre colpi in aria di fronte al consolato italiano di Istanbul e inneggiato all'uccisione del Papa. Bagci smentisce: «È un'accusa infondata», ma il timore di un'islamizzazione persiste. Il capo di Stato maggiore Yasar Buyukanit un mese fa aveva denunciato la crescente influenza del fondamentalismo, accusando il governo di voler «ridefinire la laicità». In gioco c'è anche la scelta del nuovo presidente, che verrà eletto dal Parlamento.
C'è però un problema: la maggioranza è del partito musulmano Giustizia e Libertà e lo stesso Erdogan ambisce a quella carica. Ma l'esercito, che in Turchia continua ad avere un'influenza enorme ed è di fatto una sovrastruttura di garanzia al di sopra dell'esecutivo, glielo vuole impedire. Pretende che il nuovo capo dello Stato sia espressione di tutti i cittadini e non della minoranza più islamizzata, che è al potere solo grazie alle anomalie del sistema elettorale.
La manifestazione di ieri va letta anche in questa prospettiva: è il primo episodio di un confronto destinato a diventare sempre più duro e che potrebbe anche sfociare in un golpe se Erdogan non recederà dai suoi propositi. La manifestazione di ieri era promossa dal Partito liberale repubblicano - l'unico d'opposizione rappresentato in Parlamento - e dal Partito sociale, assieme a diverse associazioni civiche. Sono i nazionalisti di sinistra, che non hanno nulla contro la visita del Papa. «Venga pure, non c'è problema», dice Hulia, una cinquantenne ben vestita. «Non mi sembra che ami la Turchia - rilancia il trentenne Nihat - ma è il benvenuto».
Nessuno evoca le polemiche provocate dal discorso a Ratisbona: la maggior parte della popolazione non si è sentita offesa dalle frasi di Benedetto XVI. Molti invece denunciano «l'imperialismo Usa» e non nascondono la rabbia nei confronti dell'Ue e di un'adesione che si allontana sempre più.
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