Uno schiaffo alla burocrazia per essere competitivi

Le norme sono diventate strumenti di discrezionalità clientelare. E persino pagare le tasse richiede risorse inaccettabili

Piercamillo Falasca*

Roma - Dichiarare «libera» l’iniziativa economica privata, per poi demandare alla legge «i programmi e i controlli opportuni» perché essa possa essere «indirizzata e coordinata a fini sociali» sembra una presa per i fondelli. Invece è l’articolo 41 della Costituzione. La stessa che fonda la Repubblica sul «lavoro», salvo disincentivare chi crea lavoro con una regolamentazione, una fiscalità ed una burocrazia asfissianti. Tanto abbiamo bisogno di uno sfoltimento di regole e cavilli, che nel 2007 in molti hanno voluto sperare nelle lenzuolate di Bersani. Il loro fallimento era però insito nella stessa logica su cui si basavano: non aprivano spazi di mercato, ma spesso introducevano ulteriori aggravi per gli operatori economici. Puoi far questo e quello, non puoi far quell’altro. Tutto teoricamente in nome del consumatore, che nelle intenzioni della sinistra dovrebbe sostituire il proletario. Ma liberalizzare con le inibizioni alle imprese è una contraddizione in termini: ciò di cui ha davvero bisogno l’Italia è un cambio di paradigma, un Deregulation Act per l’attività d’impresa (Tremonti ci passi il termine). Se l’intento del premier e del ministro si concretizzerà, avremo fatto della crisi un’opportunità e dell’Italia un posto migliore dove fare impresa. Vale a dire, ciò che la metà abbondante degli italiani ama: è di ieri un sondaggio Eurostat secondo cui il 50,6 per cento degli italiani preferisce lavorare in proprio, contro una media europea del 45,1. Se in Germania, Spagna e Regno Unito la maggioranza degli intervistati opta per un più tranquillo lavoro dipendente, l’Italia ha un tasso di imprenditorialità di livello americano. Siamo seduti su una miniera d’oro, ma abbiamo permesso allo Stato di coprire il filone aurifero dell’imprenditorialità – la leva per produrre e diffondere benessere – con una montagna di burocrazia. Per costruire un piccolo magazzino, un’impresa italiana attende in media 257 giorni, contro i 40 di un’impresa made in USA e i 100 di un’azienda tedesca: insomma, le regole nostrane regalano ai nostri concorrenti mesi di vantaggio. Un bell’esempio di protezionismo alla rovescia. Abituati da secoli alle grida spagnolesche, abbiamo permesso l’apertura formale di imprese in pochissimi dì (appena 10 giorni, a Berlino sono 18, a Londra 13), salvo poi rendere complicata la loro reale operatività: secondo la Confartigianato per far realmente partire un’officina meccanica sono necessarie ben 76 pratiche burocratiche, per un’impresa edile 73, per un ristorante 71 e 68 per una lavanderia. Assumere un impiegato è altrettanto complicato, registrare una proprietà immobiliare richiede 27 giorni e 8 procedure (nel Regno Unito 8 giorni e 2 passaggi) e finanche pagar le tasse richiede tempo e risorse umane inaspettate (un’impresa italiana destina circa 334 ore all’anno agli adempimenti burocratici di natura fiscale, contro le 105 del Regno Unito). A volte le norme igienico-sanitarie e quelle urbanistiche – anche quando si tratta di meri cambi di destinazioni d’uso di un vano - sono diventate la longa manus attraverso cui la politica locale e i burocrati concedono (interessati) il loro assenso o pongono i loro niet. Emblematico il caso di Torino, dove per aprire un bar c’è da fornire a proprie spese uno studio dell’impatto sulla viabilità, sul quale un funzionario comunale avrà poi l’ultima parola. Provate ad imporre una regola del genere al centro di New York. E così, sommando la spesa per la burocrazia e quelle inevitabili per i «sorci» (a Roma chiamano così quei funzionari pubblici specializzati nello sblocco di pratiche lente), la Banca Mondiale stima che il costo per aprire un’azienda in Italia sia pari addirittura al 17,9% del reddito pro capite annuo, contro lo 0,7% negli Stati Uniti e il 4,7 in Germania.

Se poi le cose all’imprenditore vanno male, le procedure italiche di fallimento durano di più e costano tanto: in media il 22% del valore delle proprietà immobiliari dell’azienda, contro una media Ocse dell’8,4%. Anche per chiudere baracca c’è da far pratiche e spendere soldi.

*Ricercatore Istituto Bruno Leoni

Commenti
Disclaimer
I commenti saranno accettati:
  • dal lunedì al venerdì dalle ore 10:00 alle ore 20:00
  • sabato, domenica e festivi dalle ore 10:00 alle ore 18:00.
Accedi
ilGiornale.it Logo Ricarica