Quella dolce bugia fa ancora rumore. «Smetterò solo per amore dei miei figli», disse un giorno Michael Schumacher. Mentiva. Il campione più vincente e meno amato della storia delle corse lascia per amore della Ferrari. E la differenza è grande. Michael Schumacher dice addio al casco, al volante, allebbrezza dei trecento allora e del duello e della sfida e della dolce paura di farsi male, di ferirsi, anche di morire perché sa che la Rossa da lui ricostruita ha bisogno che lui faccia un passo indietro.
Lhanno capito insieme, Schumi e la Ferrari, nellanno di disgrazia 2005, quando non andavano né luno, né laltra, quando un piccolo e sacrosanto appagamento dopo il settimo mondiale, dopo la conquista dellundicesimo titolo fra costruttori e piloti, aveva rischiato di rovinare un sogno perché «neanche io ero esente da colpe», ammetterà il tedesco. Quindi non credetegli: nella sua scelta non centrano i figli - Gina Maria e Mick jr - e neppure la signora Corinna, la casalinga di Voghera trapiantata in Germania, dolce frau dallintuito enorme quando lasciò il pilota Frentzen per il giovane e rustico Schumacher. Fu premiata, la dolce frau Corinna, presenza rincuorante, sobria e, ammettiamolo, anche un filo bruttina che, pur consigliandolo con discrezione, non ha mai veramente messo becco nel lavoro di Michael perché «non ho mai pensato che fosse giusto chiedergli di rinunciare alla sua passione, lui non concepisce se stesso senza le corse», disse un giorno.
Michael Schumacher aveva 27 anni quando sbarcò a Maranello. Arrivò con due mondiali già in tasca, conquistati con un team, la Benetton, che pareva un pullover colorato e non una macchina. Quando mise piede tra le nebbie emiliane aveva già chiara dentro sé la mission, il sogno da realizzare: «Risollevare questa squadra. Comè possibile che con una simile storia, una simile ricchezza, non vinca da ventanni?». In fabbrica, del suo debutto in rosso ricordano ancora quella frase pronunciata sbuffando nel freddo del gennaio 1996. Due giri sulla vecchia Rossa, quella del 95, quella di Alesi e Berger, poi tira su la visiera: «Mi volete spiegare come avete fatto a non vincere il mondiale con unauto così?».
Ancor oggi Alesi e Berger sentitamente lo ringraziano, ma questo era ed è Michael Schumacher. Aveva solo 27 anni e la convinzione e la maturità di un uomo dazienda, di un manager brizzolato, di un motivatore di uomini, di un agitatore di animi (per citare Enzo Ferrari). Forse mentiva, ma con uno scopo: spingere la sua nuova famiglia a credere nellimpresa, nella resurrezione. Tanto per rendere lidea, Ayrton Senna, quando nellestate 1993 fu contattato da Jean Todt, rispose secco: «Correrò per la Rossa solo quando a Maranello saranno in grado di darmi una monoposto vincente».
Due anni dopo, Michael avrebbe risposto in tuttaltro modo. A metà 1995 aveva infatti affidato al suo manager, Weber, il compito di vagliare le offerte economicamente più interessanti e, tra queste, selezionare la più affascinante. Sul vassoio cerano le imbattibili McLaren e Williams. Ma cera anche la scalcagnata Ferrari da far risorgere. Laccordo arrivò l8 luglio 1995, in una stanza dellHotel de Paris, a Montecarlo. Lui e Jean Todt a parlare per dodici ore, controllando cento pagine di contratto. Furono sfrattati, la camera era stata prenotata da altri. Finirono la sera mangiando pizza a casa Schumi. Lamicizia culminò nel mezzo dellestate 96, con la Ferrari bersagliata dalla critica che voleva la testa di Todt. Per la verità, la volevano anche a Torino, alla Fiat, azionista di riferimento. A Silverstone, Michael decise di convocare la stampa per mandare un messaggio allavvocato Agnelli: «Voglio che sappiate tutti che ho scelto la Ferrari perché sapevo che cera Todt. Quando e se lui non fosse più il capo, non mi sentirei obbligato a restare». Anni dopo, Agnelli avrebbe ammesso: «È un campione, era opportuno rispettarne le idee. Ci stava chiedendo di dare stabilità al gruppo».
Ecco perché non sono i figli, né la moglie sposata in chiesa ad averlo convinto a smettere, ma la moglie sposata in pista. Certo, nessuno lo ammetterà mai, né lui, né la Ferrari, ma lenorme tedesco questo ha fatto. Un passo indietro per consentire alla Rossa di continuare a crescere con piloti più affamati di lui. Gli mancherà lei, non la F1. E lui non mancherà alla F1. Forse il circus è addirittura felice che se ne vada. «Questo è un mondo artificiale, dal quale mi sono sempre tenuto lontano e che non può e non potrà mai sostituire quello vero» ha sempre detto lui, non nascondendo, coraggiosamente, lavversione allambiente. «Non è un egoista e nel rapporto umano non è assolutamente freddo - racconta Montezemolo - ma nel 94, con la morte di Senna, Michael si trovò allimprovviso al centro di tutto. Era lunico protagonista di una F1 senza più eroi. Se non avesse creato unarea tutta sua, sarebbe stato massacrato dai media».
Vero. Se non fosse stato forte e quasi imbattibile, lambiente lavrebbe stritolato tanto non lha mai gradito. Lavrebbero fatto piloti e team manager, pensate agli scontri con Villeneuve prima, con Coulthard poi, con Montoya e, ora, Alonso. Lavrebbero fatto anche i media di tutto il mondo, perché Michael non li ha mai sopportati. Nel 95 Briatore dovette quasi prenderlo per le orecchie per farlo uscire dal motorhome in cui si era rifugiato e portarlo a parlare con i giornalisti che lo aspettavano da due ore.
Benny Casadei Lucchi
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