«Non ci servono aiuti di stato, ma una riforma fiscale: e allora avremo anche meno bisogno di ricorrere alle banche». Paolo Galassi, presidente della Confapi (Confederazione della piccola e media Industria privata, 60mila imprese associate, 1.500.000 addetti, il 15% del Pil), è una voce chiave di quel mondo imprenditoriale che non vuole mollare: e sulle cose da fare ha le idee ben chiare.
A Torino, i suoi colleghi sono in sciopero della fame.
«Ci sono appena andato, e ho visto le loro aziende. Non sono imprese decotte, ma le nostre classiche aziende da 40-60 dipendenti, piene di voglia di fare ma strangolate dal calo di fatturato, dai problemi con le banche e dalleccessivo carico fiscale. Certo, il sistema bancario è a due marce: cè chi apre il credito e chi no, e daltra parte sta anche facendo un mestiere ingrato. Ma pure le banche più disponibili sono in difficoltà, se non si rivedono i criteri di Basilea 2, che già portavano a restringere il credito quando le cose andavano bene: figurarsi adesso. Una moratoria si impone: ma non solo. Altrimenti, ci si distrae dal vero problema».
E quale sarebbe?
«Le tasse. Sa che Ires e Irap incidono fino a due volte lutile delle imprese? Ci vuole una politica di detassazione da vincolare, naturalmente, allutilizzo del denaro risparmiato in azienda: per esempio, evitando la delocalizzazione o ricapitalizzando unimpresa che ha pochi mezzi».
Come si potrebbe fare?
«Bisogna intervenire su più fronti. LIva, ad esempio: oggi limprenditore la anticipa allo Stato, salvo recuperarla dopo sei o otto mesi come minimo. Non sarebbe meglio tenere quei soldi in cassa, versandoli solo a pagamento concluso ed evitare di andarli a chiedere alle banche?».
Ma esiste già un provvedimento sullIva per cassa.
«Sì, ma il limite di fatturato è troppo basso: 200mila euro lanno, roba da negozio di paese. Unazienda non vive con quei numeri: portiamolo almeno a 50 milioni annui. Poi cè lIrap».
Una nota dolente...
«Se non si vuole abolirla come in Francia, almeno chiediamo che diventi un costo da portare fiscalmente in detrazione e che le aziende che mantengono loccupazione o che, addirittura, riescono ad incrementarla in tempo di crisi, possano godere di sconti su questa imposta. E infine, va ripristinata la deducibilità fiscale degli interessi passivi».
Che cosa ne pensa della proposta del ministro Tremonti, di incentivi alle imprese che accettano di aggregarsi nei distretti?
«Bisogna essere chiari. È difficile aggregare noi del capitalismo popolare, che abbiamo costruito la fabbrichetta partendo da semplice operaio o anche da ingegnere che ha avuto unidea originale. Se invece parliamo del modello dei distretti integrati, allora sì, anzi è la cosa migliore. Perché vuol dire aziende con proprietà diverse, che si trovano magari in zone geografiche diverse ma lavorano a un progetto integrato. Sono le cosiddette multinazionali tascabili».
Allora almeno un punto in comune tra la vostra ricetta anticrisi e quella di Tremonti cè.
«Qui si tratta di fare una scelta di campo: bisogna schierarsi col settore manifatturiero. Cioè noi piccole imprese, lasse portante delleconomia.
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