da Milano
«Che cosa penso della riduzione delle tasse sui salari? Io penso che si devono tagliare le tasse tout court. Ma per farlo, bisogna tagliare la spesa pubblica: i nostri politici avranno il coraggio di farlo?». Non usa mezze misure Guidalberto Guidi, presidente di Anie (industrie elettroniche ed elettromeccaniche) e Ancma (costruttori di cicli e motocicli). Membro di giunta e consiglio direttivo di Confindustria, dopo averne presieduto il Centro studi, è un imprenditore che sente tutti i giorni il polso del sistema Italia: e qualche linea di febbre, a suo avviso, c’è.
Quindi approva la proposta dello studio di Banca d’Italia?
«Le tasse vanno tagliate, tutte, e semplificate. Bene quindi ridurre l’Irpef, come propone la Banca d’Italia: ma non dimentichiamoci dei troppi costi, spesso impropri, che gravano sulle aziende. Paolo Targetti, uno dei più importanti fra i nostri associati, presidente dell’Associazione costruttori illuminazione, mi diceva nei giorni scorsi di essere passato, con le nuove norme in Finanziaria, dal 51 al 60% di tax rate, l’impatto delle tasse sull’utile. Eppoi, basta con le complicazioni bizantine e le incertezze legislative: non ce le possiamo più permettere. Soprattutto in questo momento: il 2008 è iniziato in modo molto preoccupante».
Già, con il petrolio a 100 dollari al barile.
«Sì, ed è solo uno dei tanti problemi. Non soltanto per noi, ovviamente: sono appena tornato dalla Spagna, e ho visto sui giornali titoli allarmati per la situazione economica, così come in Francia e negli altri Paesi europei. Ma qui in Italia ci si perde dietro le graduatorie del Pil, più o meno realistiche, e le polemiche politiche, mentre tutti vediamo che il Paese, purtroppo, sta arretrando di fronte alla globalizzazione. L’export tiene, è vero: ma il dollaro debole ha provocato una riduzione drammatica dei margini. E anche un settore chiave come quello dell’industria elettronica ed elettromeccanica è in sofferenza».
Può darmi qualche cifra?
«Le cito un’indagine del centro studi dell’Anie: dal 2000 al 2006 la produzione industriale del settore ha perso il 20%, e un altro 6% solo nei primi mesi del 2007. E parlo di una realtà da 60 miliardi annui di fatturato, con aziende che vanno dalla multinazionale al piccolo imprenditore: quindi, uno spaccato attendibile dell’industria italiana. Ecco perché si enfatizza sempre più l’esportazione della produzione oltreconfine: e la nostra industria manifatturiera si sta riducendo a semplice assemblatore. D’altronde, il costo del lavoro impone delle scelte, per quanto dolorose siano».
Cioè la delocalizzazione?
«Guardi, le metto qualche cifra a confronto, solo a titolo di esempio. In Italia il costo orario del lavoro di un operaio è di 22,50 euro: in Croazia sono 3,70, in Romania 1,25, in India 89 centesimi di dollaro. Mi sembra che i numeri parlino da sé: senza dimenticare che di quei 22,50 euro, la retribuzione lorda effettiva del dipendente è soltanto di 9,50 euro».
Confindustria propone di legare gli aumenti salariali alla produttività: lei è d’accordo?
«La produttività è un valore chiave, senza dubbio, se si vuole rilanciare la crescita, che è l’obiettivo a cui tutti tendiamo, nessuno escluso. Attenzione però a enfatizzare il peso della contrattazione aziendale, il cosiddetto secondo livello: non deve diventare un obbligo. Non dimentichiamo che la maggioranza delle imprese italiane non ha contrattazione aziendale, e non è possibile imporgliela».
Torniamo allora al punto di partenza: bisogna ridurre le tasse.
«Certo. Ma non mi posso dimenticare che l’unico modo per farlo è ridurre la spesa pubblica: costituita, al netto degli interessi sul debito, da sanità, pensioni e stipendi pubblici. Decida la classe politica dove intervenire, ma lo faccia».
Qualche idea da suggerire?
«La mia idea è che, per incidere in uno di questi settori, mettiamo gli stipendi dei dipendenti pubblici se non vogliamo toccare le pensioni, ci vuole un Cincinnato: cioè un politico che metta in conto di non essere rieletto. Ma ce n’è qualcuno?»
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