Se i primi colpevoli sono i colpevolisti

don Chino Pezzoli

Mi chiedo se le ruberie vere o presunte che emergono in questi giorni serviranno per cambiare qualcosa tra coloro che contano. La mia risposta è velata di pessimismo per alcune ragioni.
Non si sa attendere, prima di tutto, il risultato delle indagini giudiziarie per conoscere se il reato c’è veramente, si preferisce dare giudizi affrettati sulle persone, ritenerle colpevoli pavoneggiando nelle trasmissioni il proprio garantismo. Come si può essere garantisti se si fa propria la cultura del sospetto? Chi pensa che l’altro sia un disonesto, un ladro, gli ha già buttato addosso un «liquame puzzolente» e sarà difficile poi, in caso di assoluzione, ridargli dignità, «profumo». I pregiudizi si fabbricano a iosa e chi tenta timidamente di suggerire quel tocco di prudenza è tacciato d’ingenuità o peggio di essere di parte. Non sappiamo più attendere, dare la possibilità al tempo di essere galantuomo. Il motivo non richiede ricerche psicanalitiche: un po’ tutti siamo attrezzati di «proiettori» personali, idonei a far pervenire sullo schermo dell’altro quella parte di negativo che possediamo e infastidisce la nostra adorabile immagine. Se scarichiamo sull’altro le nostre ruberie, disonestà, immoralità è come se il male fosse fuori di noi, un po’ come avveniva anticamente nei villaggi, quando si buttavano le proprie colpe su un capro espiatorio. Allora si trattava di un rito di purificazione tribale, necessario per placare l’ira degli dei. Ora no, ora si tratta di una scelta, quella di conferire agli altri le nostre colpe per sentirsi diversi, giusti, integerrimi. Il vangelo non ha mezze misure, classifica questi soggetti «sepolcri imbiancati», belli di fuori e pieni di putridume dentro. Nella nostra società di personaggi si fa a gara a giudicare, condannare gli altri fin quando qualcuno ci riserva lo stesso trattamento. Varrebbe la pena soffermarci sul detto antico «non fare agli altri ciò che non vuoi sia fatto a te», ma quando si è davanti alle telecamere per un confronto-scontro, questo saggio proverbio non trova fortuna. Si avverte spesso, in questi processi televisivi, che «sparare» sentenze su qualcuno faccia star bene perché ci si libera dai vecchi e nuovi rancori, dalla voglia d’affossare chi appartiene a uno schieramento politico diverso, da quella smania di presentarsi al popolo italiano come persone senza «macchia e ruga». Mi dispiace, in questo modo non si corregge, non si migliora una società. Il rischio è solo quello di presentare alle nuove generazioni una classe politica e imprenditoriale corrotta e corruttibile, disonesta e irrecuperabile. È venuto meno il rispetto dell’altro da parte di chi manda in onda le opinioni o le stampa su un pezzo di carta. Con il termine «rispetto» non voglio suggerire agli opinionisti di omettere le notizie in loro possesso, ma solo di presentarle con quel tocco di dubbio che ha sempre fatto onore ai grandi attori della comunicazione.
Scriveva il grande e sensibile opinionista Montanelli: «Le critiche mature andrebbero fatte su problemi e accompagnate da una qualche idea risolutrice. Trovare spiegazioni generiche e catastrofiche, additare un colpevole inafferrabile - quale il misterioso carattere italiano - serve soprattutto ad assolvere la propria coscienza. L’indignazione è un’emozione, e come tutte le emozioni dura poco e partorisce solo se stessa e gratifica solo se stessa, senza insegnare nulla». Come siamo lontani da questo stile comunicativo prudente, assennato.

L’indignazione che «partorisce solo se stessa» si diffonde e le vittime non si contano più. Anche un colpevole può essere vittima se non si ravvede e non insegna nulla agli altri disonesti che continueranno a farla franca...

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