Seconda guerra mondiale

Benedetto Croce disse che l’analisi del passato è sempre «biografia del presente». In ossequio a quest’assioma, la rivista Storia in rete ha preso, alcune settimane fa, a pretesto la recente crisi diplomatica italo-francese per offrirci un ricco dossier dedicato ai rapporti conflittuali intercorsi, in una durata secolare, tra i due Paesi latini. Partendo dall’invasione di Carlo VIII, che distrusse l’indipendenza del sistema degli Stati della Penisola nella prima età moderna, passando poi agli inganni e ai tradimenti del primo e del terzo Napoleone, analizzando l’avversione della Terza Repubblica verso l’Italia, dal contenzioso coloniale di fine Ottocento sino alla conclusione della prima Guerra Mondiale, questa lunga carrellata arriva fino ai nostri giorni. Ed eccoci, allora, alla «Dottrina Mitterand», che offre con grande disinvoltura asilo politico a terroristi, certificati come tali, e all’assalto dei grandi gruppi finanziari e industriali francesi ai gioielli del made in Italy.
La parte più innovativa di questa indagine è comunque dedicata, a quello che tradizionalmente è stato definito il proditorio attacco dell’Italia alla Francia già sconfitta dall’impeto dell’offensiva nazista. Che le cose non siano andate così e che il «tradimento» italiano, nel giugno 1940, debba essere considerato una vera e propria leggenda storiografica lo dimostra il saggio di Emilio Gin. Dopo l’accordo di Monaco del 1938, i rapporti tra Roma e Parigi divennero per Mussolini il banco di prova su cui saggiare le possibilità d’intesa con l’Inghilterra e l’occasione per rafforzare la sua capacità di manovra nei confronti del Reich. Il crescente espansionismo tedesco orientò però la Francia ad arroccarsi in una miope difesa dei suoi interessi strategici. Questa posizione di chiusura rese impossibile la distensione con l’Italia fascista nonostante le pressioni del premier inglese Chamberlain su Parigi per convincerla ad assecondare le richieste di Palazzo Venezia che non puntavano alla riconquista di Nizza, Savoia, Corsica e all’annessione della Tunisia ma soltanto a ottenere un riequilibrio dei rapporti di forza nel Mediterraneo. In questo modo, l’ostinata intransigenza francese vanificò l’azione diplomatica italiana, rendendo inefficaci le manovre di Mussolini per agire in senso moderatore nei confronti di Hitler.
Persino dopo la fine della non belligeranza, il tentativo del Duce di continuare a giocare un ruolo di mediazione si rifletteva nelle regole d’ingaggio stabilite dagli Stati maggiori italiani. Gli ordini che vietavano alla Regia Aeronautica di violare lo spazio aereo dell’Esagono, anche al solo scopo di ricognizione, e quello impartito alla Marina di impegnare il combattimento con le forze navali francesi, unicamente in caso di attacco avversario, appaiono comprensibili solo tenendo presente la volontà di condurre una «guerra simulata» al fine di giungere rapidamente a una soluzione negoziale. D’altro canto la stessa preparazione diplomatica dell’intervento avvenne secondo modalità del tutto inusuali. Come risulta dai documenti diplomatici francesi, Ciano, già alla fine di maggio, anticipò agli ambasciatori alleati e persino a quello statunitense che la decisione di Mussolini di scendere in campo era ormai irrevocabile, con una settimana di anticipo, quindi, rispetto all’apertura delle ostilità.


L’anomalia senza precedenti di una «dichiarazione di guerra a termine», come fu definita dall’ambasciatore francese François-Poncet, indica, senza margini di equivoco, che l’aggressione contro la Francia, lungi dal configurarsi come una vile «pugnalata alla schiena», deve essere letta come l’estremo sforzo di assicurare all’Italia un ruolo di media Potenza, compatibile con il mantenimento in vita dell’equilibrio internazionale. Obiettivo che l’umiliante armistizio firmato, il 22 giugno, dai rappresentanti del governo Pétain con i plenipotenziari tedeschi avrebbe irrimediabilmente compromesso.

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