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Il Senato licenzia il governo Prodi. E l’Aula festeggia

Marini proclama la sfiducia, parte il boato dai banchi della Cdl. Decisivi liberaldemocratici, diniani due senatori Udeur e Fisichella

Il Senato licenzia il governo Prodi. E l’Aula festeggia

Roma - L’avventura del secondo governo di Romano Prodi si chiude intorno alle 18. Appena Giuseppe Scalera nell’aula del Senato annuncia che i liberaldemocratici non rinnoveranno la fiducia al governo.

A quel punto, Tommaso Padoa-Schioppa non ce la fa più a restare seduto. Scatta in piedi e resta vicino al presidente del Consiglio. Prodi inizia a inviare sms con il telefonino da sotto il tavolo.
Le parole di Scalera dimostrano al capo del governo che il pallottoliere s’è rotto un’altra volta, a dieci anni di distanza. E quelle di Mastella, subito dopo, lo mandano definitivamente in soffitta. Due ore e mezzo più tardi, il tabellone luminoso certifica la fine del governo: 156 sì, 161 no, un astenuto (è il voto di Scalera, ma che al Senato vale come voto contrario).

A quel punto, il Senato esplode in un boato. E Marini, per riportare la calma, urla: «Non siamo mica all’osteria!».

Per tutta la giornata gli uomini di Prodi avevano bivaccato nei saloni di Palazzo Madama diffondendo veleni: «Vedrete - confidavano - Scalera e Dini non si presenteranno al voto. E la spaccatura dell’Udeur (Cusumano a favore, Barbato che lo insulta) è solo una sceneggiata napoletana: nemmeno loro voteranno contro. E tutto si risolverà in una bolla di sapone: Romano vince sempre». Mai previsione fu più sbagliata. La conferma di come confondere desideri con realtà sia sempre un esercizio azzardato.

E l’atteggiamento di Prodi - rimasto in aula dalle 3 del pomeriggio ma non aspetta il voto finale - è di chi sa di giocare sul filo, ma non molla: «Voglio vederli in faccia quelli che mi votano contro», aveva confidato nei giorni scorsi. E li vede sfilare. Uno dopo l’altro: Scalera, Dini, Mastella, Barbato; e, per ultimo, Fisichella. Il senatore lascia nell’incertezza l’assemblea per tutta la giornata. Non risponde alla prima «chiama» sulla fiducia; e alla seconda vota contro. Prodi vede anche Giulio Andreotti non presentarsi in aula al momento del voto, dopo essere stato presente tutta la giornata, e aver anticipato l’altro giorno che avrebbe votato a favore.

In attesa di vederli in faccia, sia nel suo intervento sia nella replica, difende fino in fondo la sua scelta (criticata sia dal Quirinale, sia dal Pd, sia da liberaldemocratici e Udeur) di parlamentarizzare la crisi.
Tutti gli avevano consigliato di dimettersi dopo il voto di fiducia della Camera; di non «sfidare» la maggioranza al Senato. Invece, lui non si muove di una virgola. Anzi, rilancia. «Tutte le istituzioni devono impegnarsi per le riforme - dice a Palazzo Madama - ed è soprattutto per questo che sono qui: nessuno può sottrarsi alla responsabilità di far cadere il governo», e con la testa gira lo sguardo verso i banchi che ospitano, o ospitavano, la sua maggioranza.

E sempre rivolto verso i banchi della sinistra dice: «In queste ultime ore ho letto e ascoltato nelle ricostruzioni di fantascientifici scenari medioevali. Si è parlato di ricatti, minacce, profferte. Tutto questo è fango puro sull’Italia e sulla democrazia». Un riferimento alla compravendita di voti, avviata dai due schieramenti per mantenere, conservare o conquistare i voti degli indecisi.

È il Prodi di sempre quando scandisce: «Il Paese non può permettersi un vuoto di governo. Deve affrontare tre emergenze: una nuova legge elettorale; una situazione internazionale; un’emergenza economica che può deteriorare i risultati economici ottenuti». Appelli che scivolano addosso all’aula di Palazzo Madama. Così prova a rilanciare le solite promesse: «Il governo è pronto a diminuire le tasse e ad aumentare i redditi dei lavoratori». Niente: l’encefalogramma dell’assemblea resta piatto.

Passano le ore. Prodi resta in aula, ma viene informato che i negoziati stanno volgendo al peggio. Il Professore sa bene che di lì a poco rischia di cadere, ma vuole cadere in piedi. Così, chiude la replica con una specie di manifesto politico: «Non si fugge davanti al giudizio del popolo. Per questo, sono qui. L’Italia ci guarda: bisogna essere all’altezza». Parole rivolte soprattutto a Veltroni. E chiede la fiducia su una risoluzione della maggioranza.

Fiducia che Palazzo Madama gli nega. E negli occhi del Professore scorrono i volti di chi gli ha negato il voto.

Mentre sale al Quirinale.

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