Senza sviluppo si avvicina il disastro sociale

Sembra un vero e prolungato happening il succedersi delle riunioni a Palazzo Chigi tra il governo e le parti sociali. Una folla di protagonisti sempre più numerosa discute e ridiscute sulla distribuzione di risorse che si assottigliano ogni giorno di più per la frenata della ripresa economica, come dimostrano gli ultimi dati su fatturato e ordinativi industriali in aprile e sui conti pubblici, come ha denunciato lo stesso Padoa-Schioppa. Si parla di tutto, tranne di come favorire la crescita economica mettendoci al passo con la media dei Paesi della zona-euro. In tutti i protagonisti di quelle affollate riunioni sembra, infatti, mancare la cultura dello sviluppo e della competitività del sistema produttivo. Aumentare le pensioni più basse, ad esempio, è cosa necessaria e giusta, così come già fece all’inizio anche il governo Berlusconi, ma rischia di essere solo un’operazione-spot che si inserisce in un quadro di ridistribuzione della povertà e non certo di una ricchezza che non si produce. I lettori ricorderanno che quando uscì la Finanziaria noi la definimmo un provvedimento «stupido» perché, ad esempio, toglieva 200-250 euro al mese a chi ne guadagnava 3mila netti, per dare 40-50 euro a chi era sotto i 2mila. Anche quella, infatti, altro non era che una ridistribuzione della povertà. Ed allora il toro va preso per le corna.
In cima ai pensieri di tutti quelli che si riuniscono a Palazzo Chigi dovrebbe esserci lo sviluppo, destinando risorse per ridurre la pressione fiscale su famiglia e imprese e rilanciando investimenti pubblici, investimenti privati e formazione di capitale umano, con provvedimenti anche di breve periodo, per dare la famosa scossa all’economia di cui si è persa memoria. Naturalmente è facile a dirsi, più difficile è trovare le risorse. Difficile, ma non impossibile. Per spiegarci meglio, vorremmo chiedere al sindacato se non è più utile per tutti, a cominciare dai pensionati, mantenere in piedi lo scalone Maroni, depurandolo, per mitigarne gli effetti, dei lavori usuranti e agganciare le pensioni più basse ai rinnovi contrattuali e quelle medie al recupero totale dell’inflazione reale.
In tal modo si difenderebbe in maniera stabile il potere di acquisto delle pensioni medio-basse, che è crollato negli ultimi dieci anni. Tutto questo sarà possibile però se cresceremo di più, rafforzando l’offerta. Mantenere lo scalone, distinguendo tra chi lavora in un ufficio pubblico o privato da chi è nelle categorie più basse del lavoro in fabbrica, è una discriminazione odiosa o una ridistribuzione equa dei sacrifici per trovare le risorse da destinare alla crescita? Così facendo, inoltre, si evita anche l’altro rischio incombente, e che cioè le imprese scarichino sui salari la bassa produttività, attivando così un altro circuito perverso fatto di bassi redditi, bassi consumi e bassa occupazione. La riprova? Mentre tutti enfatizzano la riduzione del tasso di disoccupazione (dal 6,4% al 6,2%), dimenticando che molti smettono di cercare attivamente un posto di lavoro, e quindi abbassano artificiosamente questo dato statistico sempre più insignificante, nel primo trimestre di quest’anno l’occupazione si è ridotta di 60mila unità.

Governo e sindacati sembrano aver dimenticato che l’Italia, con il suo 58% di tasso di occupazione, è agli ultimi posti tra i Paesi europei nei quali gli occupati sono oltre il 63-65% della forza lavoro. Continuando così, l’happening si trasformerà rapidamente in un disastro economico e sociale.
Geronimo

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