La sfida russa

Ammettiamolo, siamo stati un po’ sprovveduti. Questo è l’anno della Russia, di una nuova Russia, ma noi europei non ce ne siamo ancora accorti. Continuiamo a pensare che la crisi del gas con l’Ucraina sia dovuto al gelo, che i sabotaggi in Georgia siano opera di gruppuscoli fuori controlli e ci beviamo la straordinaria storia degli agenti segreti britannici che piazzano sofisticate microspie in un parco di Mosca non per scambiarsi segreti di Stato ma per... finanziare delle Organizzazioni non governative. Roba notoriamente da James Bond. Ma la colpa in fondo è nostra. Continuiamo a pensare alla Russia secondo i vecchi stereotipi, quelli di un Paese che sulla carta è il più grande al mondo e uno dei più ricchi di materie prime, ma che dal 1991 appare malandato, inoffensivo e talvolta persino un po’ patetico, come durante la crisi finanziaria del 1998. Una Russia che con Putin ha ritrovato l’ordine interno, seppur al prezzo di una gestione autoritaria, e un orgoglio nazionale, ma certo non il prestigio internazionale. Al contrario: la facilità con cui gli Stati Uniti le hanno sfilato diversi Paesi ex sovietici, tradizionalmente nell’orbita di Mosca, ha accentuato l’immagine di un Cremlino in fondo mansueto e senza dubbio malaccorto. Solo un anno fa Mosca perdeva il controllo di Kiev. Solo un anno fa Putin era terrorizzato dalla prospettiva di una rivoluzione arancione sulla Piazza Rossa.
Ma ora è tutto diverso. La nuova Russia è nata il primo gennaio 2006 sotto il segno di Dmitry Medvedev. Appuntatevi questo nome e non solo perché sarà, verosimilmente, il successore di Putin nel 2008. Oggi è uno degli uomini più potenti dell’establishment: è primo vice premier e al contempo presidente di Gazprom, e soprattutto viene ritenuto l’artefice della nuova strategia russa, che ha obiettivi prevedibili - riportare sotto la propria ala Georgia, Moldavia, Kirghizistan, Tagikistan e in primo luogo l’Ucraina - ma che viene condotta secondo modalità sorprendenti. Una Russia capace di sbarazzarsi delle prevedibili logiche sovietiche e improvvisamente duttile, tempista, cinica, consapevole che, nel mondo globalizzato, la forza militare non è più un requisito indispensabile per perseguire i propri obiettivi.
Sono stati proprio gli Stati Uniti a dare l’esempio: Kiev e Tbilisi sono «cadute» sfruttando circostanze propizie. Ora è la volta di Mosca, che anziché usare le piazze, fa leva sul gas. È la politica del ricatto energetico, inaugurata con la crisi di Capodanno in Ucraina e proseguita in queste ore. Cambia il pretesto: oggi sono gli attentati in Georgia o l’ondata di gelo che induce l’Ucraina a «rubare» il gas russo, domani sarà qualcos’altro. Ma l’obiettivo è immutato: indebolire i leader di quei Paesi e dimostrare che senza la Russia non c’è avvenire. La novità riguarda noi europei. Tanto è rude la politica del Cremlino nei confronti degli ex alleati sovietici, tanto è raffinata quella nei nostri confronti.
Putin non minaccia l’Europa; al contrario si prodiga nel rassicurarci e l’avvio dei lavori per la costruzione del nuovo oleodotto nel Mar Baltico dimostra la serietà delle sue intenzioni. Ma al contempo confida che le vicissitudini legate ai rifornimenti di metano contribuiscano a cambiare i rapporti di forza tra Mosca e Bruxelles. Facendo leva, seppur solo indirettamente, sul gas, ha dimostrato, con poca fatica e rischi contenuti, quanto importante sia la Russia per la Ue. Vuole persuadere l’Europa a prendere finalmente sul serio il Cremlino, a non considerarlo più come un partner la cui affidabilità è scontata, ma come una potenza da trattare con il dovuto rispetto e, se possibile, con un po’ di timore. In ogni caso un vicino i cui interessi non possono essere anteposti a quelli americani.
Ed è in questa prospettiva che va considerata l’Ucraina. Che la Rivoluzione arancione sia stata esaltante è fuor di dubbio, ma le aspettative degli ucraini sono andate rapidamente deluse e oggi il presidente Yushcenko appare indebolito, quasi delegittimato. Resiste soprattutto grazie al sostegno degli americani e di noi europei. Ma gli Usa non dipendono dal gas ucraino; per loro l’appoggio a Kiev è molto vantaggioso dal punto di vista strategico e a basso rischio in termini energetici. Per noi europei è il contrario: un’Ucraina occidentalizzata non è fondamentale in un’ottica geopolitica, ma del metano siberiano, che da lì transita, non possiamo fare a meno. Medvedev vuole farci capire che solo un’Ucraina di nuovo amica di Mosca può garantire forniture regolari verso l’Europa. Gioca sulle nostre debolezze per creare un cuneo tra noi e gli Stati Uniti. Il banco di prova è fissato per il 25 marzo, quando gli ucraini eleggeranno il nuovo Parlamento che, secondo i sondaggi, risulterà a maggioranza filorussa.

Yushcenko punta già i piedi e minaccia di indire un referendum per annullare le riforme costituzionali che riducono i poteri presidenziali a vantaggio dell’Assemblea legislativa. La prospettiva è quella di una nuova crisi a Kiev. E per l’Europa, questa volta, non sarà semplice schierarsi.
marcello.foa@ilgiornale.it

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