La sinistra mette ufficialmente sotto accusa il Presidente della Repubblica, reo di aver firmato il decreto interpretativo varato dal governo per rimediare al pasticcio delle liste escluse dalle elezioni regionali. Di Pietro ha chiesto l’impeachment, l’atto formale che permette di aprire un processo a carico del Capo dello Stato, ipotizzando così il reato di alto tradimento. Bersani non lo ha sconfessato e anzi ha convocato la gente in piazza per sabato prossimo contro i responsabili del presunto scempio, cioè governo e Quirinale. Napolitano ha messo un alt al linciaggio e nel giro di poche ore ha risposto con durezza agli attacchi: la partecipazione alle elezioni del primo partito del Paese - ha fatto sapere in una nota diffusa via internet - è più importante per la democrazia che non il rispetto dei cavilli burocratici, confermando così la legittimità costituzionale e civile del decreto in questione.
Le notizie che si sono accavallate nella giornata di ieri, compresa quella del Tar che riammette la lista Formigoni in Lombardia, hanno avuto l’effetto di un vero e inatteso ribaltone negli equilibri politico-istituzionali che si erano consolidati nell’ultimo anno. Non più la sinistra arroccata in difesa del Quirinale sacro baluardo della Costituzione e minacciato da Berlusconi, non più Napolitano super partes garante della democrazia. No, da ieri l’inquilino del Colle è un mascalzone qualsiasi, complice del dittatore, di un governo illegittimo e di leggi liberticide.
L’impazzimento di Di Pietro e Bersani ha una ragione semplice. E cioè che al di là delle dichiarazioni di facciata, i due erano convinti di poter vincere a tavolino (e forse anche col trucco come dimostra la sentenza del Tar che annulla l’esclusione decisa dai giudici della Corte di Appello senza tra l’altro tener conto del decreto governativo) le elezioni in Lombardia e Lazio. Pensavano che le furbate dei radicali potessero mettere in dubbio nella sostanza che in Lombardia ci fossero almeno 3.500 elettori a volere il simbolo del Pdl sulla scheda quando alle ultime elezioni la coalizione di Roberto Formigoni ha stravinto con tre milioni di preferenze.
La reazione alla firma di Napolitano è la prova del bluff. Se il garante delle regole dice che la strada imboccata è quella giusta ci si sarebbe aspettato un altro atteggiamento da chi del rispetto delle regole e degli arbitri ci ha fatto una testa così. In realtà c’è poco da stupirsi: le intercettazioni telefoniche sono sacre se a incapparci non è Fassino che si lascia scappare «abbiamo una banca»; i politici devono essere giudiziariamente immacolati tranne i loro, come dimostrano i casi dei candidati governatori in Campania e Puglia; Bertolaso non doveva occuparsi di grandi eventi, esclusi quelli caldeggiati dal Pd; le querele ai giornali sono un attentato alla libertà di informazione se fatte da Berlusconi, quelle di Di Pietro, D’Alema e Casini sono legittima difesa, e via dicendo.
Nella rete dell’ipocrisia e della doppia morale ora c’è caduto anche Napolitano e la cosa, è certo, non finirà qui. Lo strappo è di quelli destinati a spostare assi ed equilibri.
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