Si vota a Mirafiori: "Non ci sono alternative al sì"

Ieri il primo giorno della consultazione sul nuovo contratto che deciderà il destino dell'industria dell'auto. Senza entusiasmi e senza estremismi. Secondo le previsioni il 70 per cento dei voti sarà favorevole all'intesa con l'azienda. Ecco cosa prevede l'accordo. SONDAGGIO: TU COME VOTERESTI AL REFERENDUM?

Si vota a Mirafiori: "Non ci sono alternative al sì"

nostro inviato a Torino

Francesco Scandale, leader dei quadri Fiat, sceglie una metafora calcistica: «A volte bisogna avere il coraggio di dire che non si gareggia per vincere la Champions, ma per evitare la retrocessione. Questo accordo lo fa». Con il Torino che arranca in serie B e la Juventus di casa Agnelli che stenta anche in Coppa Italia, a Mirafiori l’antifona è chiarissima: l’accordo del 23 dicembre piace poco ma non ha alternative. Dice un operaio all’uscita del primo turno: «Il cuore dice no, la ragione dice sì. Siamo obbligati».
La vigilia del referendum Fiat non è agitata come l’altro giorno, quando Nichi Vendola è stato contestato dalle tute blu che sventolavano le copie del Giornale e si è rischiato qualche incidente. Non c’è grande eccitazione ai cancelli della fabbrica della porta 2, quella delle Carrozzerie. Negli unici momenti di animazione, nelle ore di cambio turno, prevale la rassegnazione.
La maggioranza non sovverte il luogo comune e resta silenziosa. Il grosso degli operai in andirivieni fende a bocca cucita la calca di giornalisti e varia umanità estranea alla Fiat venuta a sostenere il fronte del «no»: centri sociali, i resti dei movimenti «No-Tav» in Val di Susa, gli operai di Pomigliano in cerca di rivincita, qualche pensionato nostalgico della lotta di classe.
La tensione corre muta attorno alla sterminata periferia industriale di Torino. Gli ingressi di Mirafiori sono presidiati a distanza dalle forze dell’ordine, la Digos ha sconsigliato volantinaggi e manifestazioni. Resistono i camper dei sindacati di base, le bandiere Fiom e gli striscioni contro «il ricatto di Marchionne». Quelli del «no» mostrano i muscoli, piantonano il territorio, sembrano gli unici presenti. Gli altri sono costretti alle catacombe. L’assemblea delle sigle per il «sì» si svolge al mattino in una sala della vicina parrocchia di Gesù Redentore, uno spigoloso edificio di mattoni rossi a vista. L’unico cartello per il «sì» al referendum è strappato a terra, alla fermata dei bus verso il centro di Torino, assieme ai volantini sparpagliati che elencano inutilmente le misure anti-assenteismo e le nuove indennità aggiuntive. «C’è un clima di intolleranza» creato dal «raduno della sinistra antagonista che impedisce di fatto la libera azione sindacale e la stessa libertà di espressione» denuncia il sindacato Fismic.
Nell’aria aleggia il rischio di chiusura paventato da Sergio Marchionne. Il fortino di Mirafiori, il sacrario delle lotte sindacali, il recinto lungo 11 chilometri dove nacque Lotta Continua e che Enrico Berlinguer minacciò di occupare, diventerà un centro congressi o una nuova Gardaland? Le tute blu sono combattute. «Decidere è molto difficile», si lamenta una signora. «Siamo sotto ricatto, come fecero i bianchi con i negri». Schiavitù. Carcere. Non tutti la mettono sul tragico o invocano diritti o democrazia conculcati. «Voterò no per il semplice motivo che non ho voglia di lavorare fino alle 4 del pomeriggio», taglia corto un operaio alle 14.
Ma la grande maggioranza tace. Oggi è il loro giorno: le urne del referendum si sono aperte ieri sera per i lavoratori notturni, questa mattina saranno allestiti nove seggi per i due turni diurni; alle 19,30 lo scrutinio. Hanno diritto a votare 5.431 lavoratori delle Carrozzerie, gli impiegati sono soltanto 453. Età media 46 anni, anzianità aziendale pluriventennale. Mirafiori è ridotta a un’enclave post-industriale con poche migliaia di persone sulla cinquantina: il Comune di Torino ha 11mila dipendenti, il doppio. Anche nei numeri la nuova classe di riferimento per la sinistra, il pubblico impiego, ha soppiantato quella operaia.
I cancelli di corso Tazzoli non immettono più nel tempio dell’orgoglio sindacale, le tute blu sono quasi sparite, e le poche rimaste sono state abbandonate dalla sinistra storica: dal sindaco Chiamparino all’aspirante successore Fassino, il Pd torinese è tutto con la Fiat. Non c’è più un Berlinguer che porta solidarietà ai salariati oppressi; la sua goffa controfigura, Vendola, è stato contestato vivacemente. E lo strumento della contestazione non è l’Unità, un tempo unica testata abilitata ai cancelli Fiat, ma il Giornale. La Fiom, che negli anni ’70 e ’80 era depositaria di un potere di veto quasi assoluto sulla gestione della fabbrica e ora minaccia fuoco e fiamme, è il secondo sindacato aziendale: nelle ultime elezioni dei delegati di fabbrica la Fim-Cisl ha raccolto il 25,5% e 12 rappresentanti contro il 22,2 (e 8 delegati) Fiom.

In base a quei risultati il fronte del «sì» oggi veleggia sul 70%. Le tute blu non sono più pronte allo sciopero selvaggio ma chiedono soltanto di lavorare. Il mondo è cambiato, e anche la Fiat. Soltanto Vendola e la Cgil non se ne sono accorti.

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