Siamo un popolo di affittacamere

Gli alloggi in offerta sul sito Airbnb sono aumentati del 48% in un anno. E ora l'Italia è il terzo mercato mondiale

Siamo un popolo di affittacamere

Un appartamentino sfitto o, più semplicemente, una stanza in più rispetto alle necessità. E il peso di tasse immobiliari che «mordono» i bilanci e spingono le famiglie ad aguzzare l'ingegno. Basta questo paio di elementi e il cocktail è servito: così, un po' alla volta, e grazie a internet, gli italiani si stanno trasformando in un popolo di affittacamere. È l'«airification» della Penisola, come suona il titolo di una recente ricerca dell'Università di Siena, e il termine richiama direttamente la vera protagonista della svolta, l'americana Airbnb. Fondata in California nel 2008, la società gestisce una piattaforma digitale che mette in contatto sulla Rete i cosiddetti host, i padroni di casa, e i turisti alla ricerca di un alloggio alternativo al tradizionale albergo. In Italia l'idea che arriva dall'America ha sfondato: sul sito di Airbnb gli annunci di appartamenti o stanze singole a disposizione hanno raggiunto quest'anno quota 340mila, un aumento di ben il 48% rispetto al 2016. Così per la società Usa la Penisola è diventata in poco tempo il terzo mercato mondiale per arrivi.

A Roma, la capitale dell'affitto temporaneo, si calcola che camere e appartamenti offerti via Airbnb abbiano raggiunto il numero di 26mila e che nel centro storico della città gli alloggi destinati ai turisti abbiano ormai superato l'8% del totale. A Milano l'effetto Airbnb ha contributo a cambiare il volto di quartieri come l'Isola o i Navigli. Sulle Riviere liguri e in altre zone di grande tradizione turistica, Airbnb è diventata la scelta di molti proprietari di seconde case, magari ereditate dai genitori e poco usate: basta affittarle anche solo per poche settimane all'anno per rientrare dalle spese di mantenimento e, se si è fortunati, per guadagnarci pure qualche cosa. È proprio questa la filosofia della società Usa: offrire al turista alloggi a costi ridotti, e allo stesso tempo, garantire ai proprietari immobiliari un più efficiente utilizzo del proprio patrimonio.

VIA ALLE POLEMICHE

I numeri dichiarati dall'azienda Usa sono impressionanti: attraverso Airbnb gli host italiani hanno incassato nel corso del 2016 621 milioni di euro; gli ospiti sono stati 5,6 milioni, con un aumento del 55% rispetto all'anno precedente. Ma secondo Airbnb il fenomeno della locazione a breve termine ha un impatto ben più rilevante: l'indotto (l'attività di ristoranti, negozi e altri esercizi commerciali legata ai turisti Airbnb) raggiunge la bellezza di 3,5 miliardi.

Va detto subito che sulle cifre si è acceso uno scontro furibondo e ad attaccare di più sono stati gli albergatori, i grandi perdenti del fenomeno degli affitti temporanei. L'associazione di settore, Federalberghi, ha messo per esempio nel mirino i dati sugli incassi dei proprietari. Secondo Airbnb l'87% degli host, in totale sono poco più di 121mila, affitta solo una unità immobiliare e il tipico host affitta la propria casa o una stanza per una media di 23 giorni all'anno con un guadagno, anch'esso medio, di 2.200 euro. Tutto sbagliato, hanno detto i rappresentanti degli albergatori: se i 121mila host italiani davvero guadagnassero solo 2.200 euro l'anno, gli incassi complessivi non sarebbero i 621milioni di cui sopra ma si fermerebbero a meno della metà; la verità è che oltre 90mila proprietari che utilizzano i servizi della società americana dimenticano di denunciare al fisco le entrate delle locazioni. A complicare la valutazione del fenomeno è il fatto che le contestazioni di Federalberghi sono state a loro volta contestate da Confedilizia, l'associazione della proprietà immobiliare, che ha respinto le accuse di evasione. Il risultato è un ginepraio di numeri e dati in cui è difficile orientarsi, anche se una cosa è certa: quello del fisco è uno dei fronti più caldi per l'attività di Airbnb in Italia.

CEDOLARE SÌ O NO

Di fronte alla rilevanza del fenomeno il governo è entrato in campo con un intervento che nelle intenzioni doveva essere risolutivo: in ottobre è diventata operativa l'imposizione di una cedolare secca, pari al 21%, sulle somme incassate dagli affitti temporanei. In base alla nuova legge a raccogliere le tasse dovute dai proprietari e a girarle al Fisco devono essere gli stessi mediatori, gli agenti immobiliari nel caso degli affitti tradizionali, Airbnb e le altre società sue concorrenti, nel caso della mediazione online. Gli agenti immobiliari, anche attraverso le associazioni di settore, dopo qualche mugugno si sono adeguati; Airbnb è scesa sul piede di guerra con una serie di ricorsi al Tar e al Consiglio di Stato, rifiutando di applicare le norme. A dare manforte alla società Usa è scesa in campo l'Autorità Antitrust con una segnalazione, non vincolante, secondo cui le piattaforme digitale risulterebbero penalizzate rispetto ai tradizionali competitors. Ed è la tesi della stessa Airbnb: la cedolare secca, dice la società, deve essere trattenuta per le persone fisiche che non esercitano attività professionale nel settore. Ma da noi avviene tutto sotto forma digitale, a differenza degli agenti immobiliari tradizionali non conosciamo personalmente i nostri clienti. Come facciamo a trattenere le tasse? L'obiezione non è peregrina ma nasconde anche qualcosa d'altro.

TUTTO IN IRLANDA

Se accettasse l'inedito ruolo di sostituto d'imposta Airbnb vedrebbe sgretolarsi l'impalcatura su cui ha costruito il proprio business. E nel business della società nulla avviene, dal punto di vista formale, in Italia. I soldi versati dai turisti vanno subito alla casa madre irlandese; dei 621 milioni di euro versati ai proprietari di alloggi italiani, la società trattiene tra il 10 e il 15% in commissioni (dai 62 ai 93 milioni) ma anche questi sono irlandesi. Airbnb Italia, la Srl aperta a Milano, è una società che ufficialmente fa poco più che rappresentanza, si occupa delle attività di marketing e nel 2016 ha versato, per tutto il giro d'affari nella Penisola, la miseria di 62mila euro di imposte. È lo stesso problema che si pone anche per gli altri colossi della Rete come Amazon o Facebook e che dovrebbe essere superato con l'introduzione della cosiddetta Webtax, pari al 6% del giro d'affari, la cui entrata in vigore è prevista per il 2019.

RISCHIO DISNEYLAND

Tasse a parte, però, il successo di Airbnb potrebbe presentare qualche altro problema. A parlarne è lo studio già citato del Ladest, centro di ricerca dell'Università di Siena, quello in cui si parla di «airificazione» delle città italiane. Il documento nota che negli Stati Uniti è bastato che gli appartamenti riservati all'affitto temporaneo raggiungessero percentuali intorno al 7/8% del totale delle unità abitative per far suonare campanelli d'allarme nelle amministrazioni pubbliche. A dare il via alle polemiche il timore di vedere nascere tante Disneyland in miniatura presidiate da orde di turisti, snaturando tradizioni, abitudini e vita degli abitanti, costretti a rincorrere un mercato degli alloggi con quotazioni sempre più alte. In Italia la soglia che negli Usa è stata considerata preoccupante è stata in molte località raggiunta e superata di slancio.

A Venezia più dell'8% degli alloggi è a dedicata alla locazione temporanea; a Firenze, nel centro storico, la percentuale sale al 18%; a Matera, nella zona dei Sassi addirittura una casa su quattro è riservata all'affitto a tempo breve (vedi anche il box a fianco). «I centri storici italiani», avverte lo studio, «rischiano la desertificazione».

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