Silvio, il milanese doc innamorato di Napoli che fa ingelosire i suoi

Silvio, il milanese doc innamorato di Napoli che fa ingelosire i suoi

Sud, Sud, Sud. E al Nord chi ci pensa? È un po’ di tempo che questa inquietudine rimbalza da Asti a Milano, da Piacenza a Pordenone. Il futuro dell’Italia, borbottano, si gioca qui, negli arcipelaghi delle piccole imprese, qui alle porte dell’Europa, dove si macinano affari e lavoro. È da queste parti che si può aggredire la crisi, sbriciolarla, lasciarsela alle spalle. Qui, come sempre. È questo il discorso che quelli di su, quelli che hanno appena votato, soffocando il malumore, vogliono fare, faccia a faccia, con il Cavaliere. Il fronte passa da queste terre.
Berlusconi è Milano. È lo stemma del biscione. È il suo dialetto, la casa, la sua gente, il popolo delle partite Iva, quelli che bestemmiano contro l’assistenzialismo, contro le tasse, contro la provvidenza, che da queste parti neppure Manzoni è riuscito a spacciare come qualcosa di davvero buono, di cui fidarsi. Berlusconi non teorizza la questione settentrionale. Non c’è bisogno. È scritta nel suo Dna e quasi non se ne preoccupa. È quello che fa, è quello che dice, è quello che pensa. È il Nord, qualcosa che ti porti dentro quando cammini. E sbandierarlo è inutile. Solo che loro, quelli del Nord, di questi tempi sentono la paura, la annusano. Forse è colpa di questa crisi che ti rimbalza nelle orecchie, dei cattivi tempi che corrono, di quest’ansia che non va via. Qualche volta ti capita di pensare che qui faticano a convivere con il pessimismo. Non ci sono abituati, li rende nervosi.
La crisi, al Nord, non ha gli stessi colori del Sud. È un’altra paura, un malessere diverso. L’ossessione, quando si va giù, è non vedere l’orizzonte. È questo futuro che non arriva mai, è quella sensazione di restare tutta la vita abbarbicati a un muro, con le unghie e scivolare giù. Servirebbe sempre uno scatto di reni, ma ogni volta che ci provi accade qualcosa che ti riporta in bilico. Il Sud tira avanti senza profondità. Quello che invece fa sbarellare il Nord è perdere quello che si ha. È retrocedere. È lasciarsi tirare giù dagli altri, guardare al di là delle Alpi e ritrovarsi sotto l’Appennino. È una vita che vivono con la sindrome della zavorra. Ecco, è questo il problema. Berlusconi sceglie Napoli come luogo del suo destino. È lì che riunisce il governo. È lì che va e spazza via i rifiuti. È lì che il Cavaliere canta, come se quella città di mare, sotto il Vesuvio, sia un luogo esotico, una vacanza. Questa storia i milanesi faticano a digerirla. Milano a volte si sente un po’ abbandonata. Milano vede Malpensa ridimensionata e Berlusconi lascia stare. Milano si perde nelle chiacchiere dell’Expo. Milano è una provincia che si può anche perdere. Milano lontana, Milano che tanto se la cava da sola. Milano che non è più una città da vivere. È come se qui, proprio lui, vedesse solo un cielo grigio. Berlusconi che alla fine si ammala di quella strana «voglia di vita» che prende molti milanesi quando passano e vanno giù, ben oltre il Rubicone. Quello che al Nord non perdonano al premier è essersi innamorato di noi «terroni».
È una questione sentimentale. Il premier pensa ai debiti di Catania, mentre a Torino non mette mai piede. Perché quelli del Sud non si pagano quello che spendono? Non chiamatela solo gelosia, ma è anche questo. È come se da queste parti lui partecipasse solo per dovere, un salto al comizio di Podestà, qualche parola sull’acqua alta di Venezia, una manciata di rassicurazioni per il futuro del Nord-Est, dove il Carroccio fa la voce grossa e ha voglia di muri e d’identità. Berlusconi, pensano, sa quanto sia utile la «Brescia-Bergamo-Milano», ma non c’è nulla da fare: nel cuore ha il Ponte sullo Stretto. La grande opera, quella che resta, come un monumento tra Scilla e Cariddi. Il Nord riconosce Berlusconi in Abruzzo. L’uomo che fa, lì in mezzo alle macerie, con la forza di ricostruire. Bravo, dicono. È un abbraccio. È sentire quella terra come fosse sua. L’Aquila è simbolo di chi non si scoraggia. È come il Nord, lo stesso orgoglio. Ma - ripetono su, sotto le Alpi - non ti dimenticare del resto.
Berlusconi, probabilmente, sente questa inquietudine come un mezzo capriccio. Non ha mai pensato di abbandonare il Milan, non abbandona il Nord. Forse non teme più di tanto neppure Bossi, questa Lega che conquista terra nelle roccheforti rosse dell’Appennino, che parla la nuova lingua degli operai e il dialetto degli artigiani, radicata e ramificata in quella Padania che per lunghi anni sembrava solo un sogno un po’ strambo. La Lega che, ora più che mai, fa paura agli uomini del Cavaliere. La Lega che come ragione sociale difende gli interessi del Nord. Nessuno vi strapperà quello che avete costruito. Il Carroccio in questo funziona, solo che non basta. Berlusconi è un’altra cosa. È il Nord che attacca, che fa gioco e guarda avanti. È l’uomo che parla del miracolo. È il movimento.
Bossi e Berlusconi si vedono spesso. Quelle cene ad Arcore sono un’abitudine. L’ultima due sere fa.

Il Cavaliere si è quasi confessato con il vecchio Senatùr, e lo ha fatto come chi un po’, dopo tutti questi viaggi, ha voglia di tornare a casa. Ad un certo punto ha detto: «Mi toccherà vendere Villa Certosa, così stiamo più tranquilli». E poi l’ultimo pensiero: «Forse è meglio riprenderlo, Kakà». Il desiderio di un milanese qualunque.

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