Silvio non ci sta: "Se Gianfranco resta, si adegua"

Berlusconi convoca i vertici di Pdl e Lega in vista della direzione di domani con Fini. Lo sfogo: "Problema non politico, ma personale". Poi avverte: "Non mi farò logorare con questo stillicidio". Bossi consiglia cautela: non cadere nelle provocazioni, ma cerca l’intesa

Roma - Ieri è stato il giorno della conta, domani sarà il giorno della verità. Con Berlusconi e Fini che, in un modo o nell’altro, si confronteranno davanti alla direzione nazionale del Pdl, quasi seicento persone di cui 171 aventi diritto di voto (nel caso, niente affatto scontato, che si arrivi a presentare delle mozioni). E con il Cavaliere e l’ex leader di An che continuano a restare su distanze siderali, nonostante il lavoro dei pontieri e un deciso passo indietro dei cosiddetti finiani (arrivati non solo a negare di aver mai ipotizzato un gruppo parlamentare autonomo ma, alcuni di loro, persino l’ipotesi della corrente di minoranza).

Nelle diverse riunioni a Palazzo Grazioli - con i colonnelli leghisti Calderoli e Maroni per discutere di assessorati regionali e poi con i coordinatori del Pdl Bondi e Verdini per mettere a punto la direzione nazionale di domani - Berlusconi non usa infatti mezze misure. Perché, dice, «tutta questa storia è incomprensibile e senza senso». «Cosa voglia davvero Fini - ripete il premier in privato - ancora non siamo riusciti a capirlo...». E quanto quello tra il Cavaliere e l’ex leader di An sia un dialogo tra sordi lo conferma uno scambio di battute in Transatlantico tra Cicchitto e Ronchi. Con il primo a dire che «da Fini non sono arrivate richieste chiare e nessuno sa cosa voglia» e il secondo a ribattere che «le sue posizioni sono evidenti» e comunque «se vuoi ti chiamo il presidente così te lo spiega». Un confronto cordiale nonostante le distanze, ma che fotografa l’immagine di due mondi lontani. Il problema, però, è che oltre l’incomunicabilità c’è anche un deciso fastidio da parte di Berlusconi per i toni usati da molti dei cosiddetti colonnelli finiani. Al punto che alla riunione a Palazzo Grazioli con i due coordinatori (assente La Russa per impegni precedenti), capigruppo e vicecapigruppo di Camera e Senato, Bocchino non viene deliberatamente invitato. Perché, spiegava in privato il Cavaliere il giorno dopo lo scontro tv con Lupi, «quello lì non lo voglio più vedere...». Anche se qualcuno guarda con un pizzico di malizia anche all’assenza di La Russa, promotore in pochi giorni di due documenti anti-Fini. Perché è chiaro che se alla fine i due contendenti dovessero arrivare a trovare la quadra a rischiare sarebbe soprattutto chi in questi mesi si è più esposto dall’una e dall’altra parte.

Il premier, dunque, è stanco del continuo «controcanto» di Fini e degli affondi degli uomini che gli stanno più vicini. Ed è tentato dal non fare alcunché per stoppare l’ex leader di An, visto che - riflette con i suoi - «non siamo di fronte a un problema politico ma personale». Insomma, «non ho intenzione di farmi logorare con questo stillicidio». A predicare cautela, invece, sono i colonnelli leghisti, perché Bossi è convinto che il Cavaliere non debba «cadere nelle provocazioni». Secondo il Senatùr, infatti, è necessario che i due trovino «un’intesa», anche perché ci sono in ballo i decreti attuativi del federalismo e uno scontro certo non gioverebbe.
Berlusconi, dunque, resta contrario all’ipotesi della corrente, ma ancora non ha preso una decisione su come comportarsi durante la direzione nazionale di domani. È chiaro, infatti, che molto dipenderà da quello che dirà Fini, ma la replica con cui il Cavaliere dovrebbe chiudere la giornata sarà determinante. Come la scelta se votare o no delle mozioni, ipotesi che i finiani al momento sembrano non gradire.

Secondo il pallottoliere di Palazzo Grazioli, infatti, di 171 voti l’ex leader di An ne porterebbe a casa tra 17 e 19, a mala pena il 10%. Con un dato su tutti: sarebbe in minoranza anche rispetto all’ala di ex An.

D’altra parte, se ieri i finiani vantavano 56 firme, il documento degli ex colonnelli di An contro Fini ne contava 76. Di certo, su un punto il Cavaliere è stato chiaro: «Se resta nel Pdl si dovrà adeguare alle decisioni della maggioranza».

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