Roberto Scafuri
da Roma
Forse ancor più delle tremila persone accorse di sabato pomeriggio alla Fiera di Roma da tuttItalia, senza fanfare e con poche bandiere, della Quercia e del Pse. Forse ancor più della foga toscana di Fabio Mussi, «Nessuno osi chiamarci scissionisti! Diamo Stalin seppellito per sempre...». Forse ancora di più della verve oratoria di Cesare Salvi, che alterna battute a botte sul quartier generale ds, «quando il partito va male si cambiano i dirigenti, non il partito».
Forse ancor più di questo, della presenza sul palco del laburista Spini assieme dellambientalista Bandoli, e in platea degli interessatissimi Cossutta, Migliore, Caldarola eccetera, ci volevano parole semplici e ricordi densi. Quelli di uno che nel Pci non cè mai stato: Giovanni Pieraccini, classe 1918, nome dimenticato dai più. Eppure: partigiano, giornalista e direttore dell'Avanti!, ministro del Lavori Pubblici durante il primo governo Moro (1963), ministro del Bilancio dal 1964 al 1968, protagonista del primo tentativo di programmazione economica e dellunificazione socialista del Psu (1968). Due volte ancora ministro negli anni Settanta, prima di ritirarsi da una politica che già allora aveva smarrito il senno. Autonomista lombardiano, Pieraccini è stato lasso nella manica di Salvi (che lha riscoperto e invitato a prendere la parola), capace di conquistare la platea fino a una standing ovation con i tremila in piedi, un po commossi, a meditare sull«ideologia trionfante del mercato» e sul congresso di fondazione del Psi nel 1892, a Genova, reso possibile da «una riduzione del prezzo dei biglietti dei treni, per la celebrazione della Scoperta dellAmerica».
È il vecchio socialista a evocare apertamente il «coraggio della scissione, come i socialisti dagli anarchici di fine secolo», e «lironia della storia che si ripete, 115 anni dopo, con il tentativo di fare un partito democratico che Turati trasformò nella nascita del Psi». Insomma, Pieraccini viene adottato dalla sinistra ds finalmente unita, accomuna nei complimenti Cossutta e Tortorella, diventa per una ventina di minuti il più coraggioso di una platea che ormai si sente vicina al grande (e doloroso) aut aut: vincere il congresso e mandare allaria il Pd o diventare guida di un Ps che stia alla pari degli altri nella famiglia del Pse. Salvi infiamma i tremila mettendo il dito nella piaga: domande che rendono «inaccettabile il balbettio» del gruppo dirigente: «Il nuovo partito starà nel Pse e nellInternazionale socialista? Per che cosa compiere questo sacrificio?».
La questione del Pse, che invano Fassino e DAlema tentano di confondere, è stata chiarita di recente dai leader euro-socialisti Schultz e Rasmussen: «I socialisti europei non cambieranno né il nome né la ragione sociale, non ci sono dubbi». E Schultz, in maniera ancora più stringente: «Ma voi in Italia non avete proprio altri problemi cui pensare, che a questo partito nuovo?...». Salvi fa impallidire il già pallido fassiniano Migliavacca, in sala: «Noi abbiamo sentito le parole dei compagni socialisti europei. Fassino e DAlema, avete sentito anche voi?». Segue una disamina impietosa degli ultimi anni: «Nel 96 i Ds presero otto milioni di voti, oltre il 21 per cento, poi è cominciato il declino, fino al 17 delle ultime elezioni». Voti perduti per la distanza dal Paese reale e dai suoi bisogni, «perché non si è stati chiari nei rapporti tra affari e politica, come nel caso Unipol che, secondo i sondaggi, cè costato circa un milione di voti... Quando un partito va male, in un paese normale, alle elezioni si cambiano linea politica e dirigenti. Da noi quegli stessi dirigenti vogliono mandare a casa il partito. Come diceva Brecht, se il popolo non è daccordo, sciogliamo il popolo» (replica di Migliavacca dettata alle agenzie: «Salvi abbia più rispetto dei nostri dirigenti»).
Mussi delinea il tragitto: «Il Correntone non cè più, si apre una fase nuova, si ritrovano compagni e compagne che vengono da strade diverse. Andremo uniti al congresso non per rendere una testimonianza, ma per vincerlo». Una parola, la battaglia si sposterà perciò sulle regole congressuali, «che siano occidentali, non chiediamo tanto», reclama Mussi, sicuro che il «progetto del Pd non sarà un pranzo di gala».
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