Cultura e Spettacoli

Il sogno classico da Picasso a Andy Warhol

Che cosa accomuna artisti così diversi e lontani? L’aspirazione a una «forma» che trasfigura ma non rinnega la grande lezione degli antichi

Che cos’hanno in comune Picasso, De Chirico, Morandi, Balthus e Warhol? Niente, se non l’essenziale, vale a dire l’altezza della loro arte. In realtà, a ben vedere, qualche cosa di meno generico che li accomuna c’è. Sono dei classici moderni. E non solo nel senso che, essendo stati protagonisti dell’arte contemporanea, la loro opera è ormai storicizzata (sia pure entro diverse scale di valori: una cosa è Picasso, che è stato il padre di tutta la pittura moderna, un’altra Balthus, che ne è stato un interprete). C’è in tutti loro, nonostante la diversa fisionomia, l’aspirazione a un’arte che, come diceva lo stesso Picasso, non cerca ma trova.
Picasso, certo, è stato il padre per eccellenza delle avanguardie. «A vent’anni - ha detto una volta - dipingevo come Raffaello. Ma mi ci è voluta tutta una vita per imparare a dipingere come un bambino». E in questa ricerca di un’innocenza originaria consiste in fondo tutta la sua opera. Tuttavia, dopo il momento cubista, ha coltivato nei primi anni Venti anche un sogno di classicità: un sogno tanto rivoluzionario (anche la norma può essere trasgressiva!), che gli storici non sono riusciti a dargli un nome. Hanno parlato di «Ritorno all’ordine», ma senza riuscire a coniare un “ismo” che fosse efficace come cubismo, futurismo, eccetera.
Anche De Chirico, come Picasso, ha coltivato un sogno classico. Anche lui è stato un artista proteiforme. E anche nel suo caso la storia dell’arte ha fatto fatica a capirlo, dopo la celebratissima stagione della metafisica: cioè quel modo di dipingere che non voleva stravolgere l’immagine delle cose, ma sottolinearne il mistero. La metafisica è, quasi sempre, una pittura realista. In una Piazza d’Italia, o in una natura morta con una testa di Apollo e un guanto per lavare i piatti è facile capire che cosa stiamo vedendo. Ma guardandole ci rendiamo conto che non sappiamo niente della vita. E proprio questo è il punto. De Chirico è morto a Roma nel 1978. Eppure secondo alcuni critici era scomparso molto prima, addirittura nel 1919, a soli 31 anni, appena conclusa la stagione metafisica. Dopo di allora, in realtà, de Chirico ha dipinto ancora per oltre mezzo secolo, ma pochi lo sapevano. Il «qui giace» inesorabile lo aveva giubilato, e quasi nessuno si era preoccupato di vedere che cosa, dopo la soglia straordinaria degli anni Dieci, avesse dipinto.
E passiamo a Balthus. (Morandi in Italia è tanto noto, che non se ne avrà a male se ci volgiamo subito al suo connazionale). Era italiano il franco-tedesco Balthus? Be’ d’adozione certamente: senza la conoscenza di Piero della Francesca la sua arte sarebbe stata diversa, probabilmente minore. Ancora giovanissimo aveva copiato ad Arezzo gli affreschi del ciclo della Vera Croce, che pressappoco negli stessi anni erano stati riscoperti da Venturi, Berenson e Longhi. Quel lungo studio è stato la sua vera accademia, la sua Sorbona e la sua Yale. Questo non gli ha impedito di essere se stesso, a dimostrazione che l’originalità non è, come pensiamo oggi, fare qualcosa che non ha mai fatto nessuno. Quella è eccentricità, e non conta.
Quanto a Warhol, artista americano di nascita, ma europeo di radici, con la Pop Art ha dato a suo modo statuto classico alle immagini triviali trasmesse dalla televisione, pubblicate sui rotocalchi, diffuse dalla pubblicità. Soprattutto, però, ha dimostrato che l’informazione che ci circonda non è la verità.
Chi è veramente Mao (chi veramente Hitler, chi è Stalin, chi è Mussolini, di cui parliamo continuamente?). Quando Warhol dipinge Mao in azzurro, in rosso, in verde, con la faccia stravolta da assurdi viraggi colorati, ci sta ricordando che quello che dicono i libri di storia, con le loro storie; quello che si studia a scuola; quello che si sente ai telegiornali, non è la verità.

È una maschera della verità.

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