I dati statistici sul lavoro resi noti ieri in parallelo tra Italia, Europa e Stati Uniti si prestano assai bene a qualche riflessione politicamente scorretta. Nel consueto gioco della strumentalizzazione ci saranno sicuramente gli adepti del bicchiere mezzo pieno che evidenzieranno la conferma per lItalia di un tasso di disoccupazione minore rispetto allarea europea e con qualche segnale di ripresa, mentre per gli Stati Uniti si potrà mettere in risalto un calo dellindice. Non mancheranno ovviamente i disfattisti del bicchiere mezzo vuoto che punteranno lindice sullelevato dato della disoccupazione giovanile per lItalia, ormai vicina al 29% e soprattutto concentrata al sud, oppure per gli Usa alla bassa creazione di nuovi posti di lavoro. Lo stesso presidente Obama, che ha interesse a mantenere alta la guardia, ha commentato ieri i dati parlando di recessione ancora «brutale» e di «molto lavoro ancora da fare.
Va però detto che, al di là del gioco delle parti, le statistiche ci raccontano solo una minima parte della storia, così come il prezzo di un cibo poco ci dice del suo sapore: proviamo quindi a raccontare in poche righe come stanno davvero le cose quanto meno a casa nostra. Cominciamo col dire che quando si parla di lavoro in Italia spesso si chiedono cose inconciliabili tra loro. Si vorrebbe un posto fisso (perchè flessibile per litaliano si legge precario ed è cosa brutta), al contempo si vuole però uneconomia dinamica con un ingresso facile nellimpresa, stigmatizzando il fatto che nelle fasi di crescita il Pil italiano non cresca velocemente come quello di altri paesi, come testimoniano i dati americani, dove si assume facilmente perché altrettanto facilmente si licenzia. Si pretende un salario alto (la parola dordine è «dignitoso») anche per lavori per i quali ci sarebbe la fila a stipendi inferiori ma ci si scandalizza quando un imprenditore decide di spostare la produzione dove il lavoro costa una frazione. Si pretende un impiego «chic» anche se non necessario o sottopagato (basti pensare alle migliaia di praticanti avvocati) e si snobbano i lavori manuali (giudicati poco dignitosi anche se ben pagati) lasciandoli agli extracomunitari, quando i datori di lavoro assumerebbero volentieri degli italiani, non fosse altro per il vantaggio della lingua. Si vorrebbe che i giovani lavorassero, ma ci si batte con il coltello tra i denti per la tutela del posto dei vecchi. Si valutano i governi sulla tenuta dei conti, ma si vorrebbe che migliaia di posti, spesso non necessari, venissero creati a spese della collettività (la parola magica è «stabilizzazione»).
Insomma, si pretende il paese che non ce e che non ci può essere, magari cullati dallillusione del passato, dove questi miraggi erano alimentati dai soldi stampati con la crescita del debito, scaricato proprio su quei giovani che adesso stanno cominciando a rendersi conto di chi pagherà la buona pensione del padre che, daltra parte, spesso sta consentendo loro di aspettare con comodo lagognato lavoro fisso, chic e ad alto salario. Purtroppo la sveglia dovrebbe essere già suonata da un pezzo: nei paesi normali si viene pagati per quello che un lavoro vale e non per quello che viene deciso a tavolino, si viene assunti facilmente perché i lazzaroni e gli assenteisti vengono mandati a casa e non ci sono giudici che li reintegrino magari contro logica.
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