Era fine estate del millenovecentottantanove, avevo 23 anni, e quella mattina accesi la mia Panda Young bianca con le strisce nere e gialle sulle portiere, motore Fire 750, zero cavalli, zero consumi e zero ragazze che la guardavano perché non era una Golf e neppure Gti. Uscito dal cortile di casa impostai il navigatore dei ricordi in direzione Torino, altra città, altra regione. La sera prima avevo telefono a nonnoDino che aveva novant'anni perché «domani vengo a trovarti, no, no, no non devi fare niente, mi porto da mangiare, anzi porto qualcosa anche a te e così mi racconti...» e ti racconto che? lo sentii domandare mentre mettevo giù la cornetta. Torino era bella ma non bella come oggi e mi persi e fermai e domandai e trovai finalmente il palazzone del nonno perché tutte le volte mi perdevo e fermavo e chiedevo. Lo sentii avvicinarsi da dietro la porta con le ciabatte di panno che strisciavano e i tocchi di bastone sul pavimento di marmo. Sentivo già quell'odore mezzo profumo che permeava l'aria e che per me, fin da piccino, aveva sempre significato odor di vecchio e invece era il dolciastro profumo del legno di due vecchie credenze umbertine. Di nonnoDino in quella giornata ricordo gli occhi sempre un po' diffidenti quando ci sedemmo a tavola e subito prima di mangiare gli posi davanti un miniregistratore. Lui domandò «ma che fai?», faccio che se hai voglia mi racconti di te, della nonna Erina, mi racconti di papà e Cesena, delle campagne, di zio Primo che era socialista convinto e di Mussolini che era suo amico convinto e in fondo lo proteggeva «quello no, quello no, lasciatelo stare...». Mi racconti del cassetto chiuso e di Vienna e dei tuoi viaggi al Casinò, dell'America e New York e...
Mi raccontò tutto.
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