Quella sera d'agosto anche al Pardo, che è belva aggressiva e permalosa, spuntò una lacrima. In piazza Grande, a Locarno, la platea capì subito che era successo qualcosa. Il tono non era il solito. La voce del direttore stentorea e funerea. Disse che il programma era cambiato perché il cinema era triste. Se ne era andato il «Capitano». E, da quell'Attimo fuggente, tale è rimasto per il mondo intero. Nessuno riuscì a spiegarsi il motivo che spinse Robin Williams a interrompere bruscamente la sua vita. E l'uomo sgomento è assetato di verità, anche se non sempre si può capire tutto. Sapere tutto. Ancor meno perché quell'allegra Mrs Doubtfire - che dietro la sottana nascondeva un papà desideroso di stare con i figli dopo il divorzio - l'avesse fatta finita. Che cosa mai avesse convinto Patch Adams, dopo aver regalato sorrisi ai malati di mente, ad andarsene. Così. Alla chetichella. In una mattina americana in California. A Paradise Cay. Nome di beffa. O forse di presagio. Perché nessuno gli ha mai voluto male, anche se lui ha sempre temuto proprio il mancato affetto.
Si disse che quella morte era figlia dell'alcol. E fiumi di whisky 'n soda avessero lasciato il corpo di Robin Williams come quello che aveva bevuto. Una bottiglia vuota. Si disse che quella morte era figlia della droga. Declinazione cocaina. Erano i tempi degli esordi. Di spettacoli improvvisati nei locali. Da stand up comedy, come in America traducono il cabaret. Una raffica di battute su tutto e niente. Tra voci riprodotte da bifolco del Sud o televangelista ai volti chiacchierati di politica e tutto un po'. Piaceva, quel clown ancora poco conosciuto. Piaceva anche agli «spaccia» a stelle e strisce. E le bustine gliele regalavano. La notte era fatta così. Olfatto e palato. Droga e alcol.
Alzare il gomito gli costò due matrimoni. Con Valerie Velardi, l'amore di gioventù. E con Marsha Garces, assunta da Valerie come tata del loro figlio, ma che poi fece carriera fino a sposare l'Adrian Cronauer di Good morning Vietnam e gestirne gli affari da agente. Ma Robin Williams restò un uomo malato. Per quel morbo di non sentirsi sempre il centro dell'attenzione, temere il declino e il rinsecchirsi della vena creativa nessun manuale di patologia indicava la cura. E l'uomo con il naso rosso del pagliaccio che sfidò la schizofrenia degli internati nei nosocomi continuò a soffrire in silenzio. Ad accettare copioni su copioni. Per esserci. Perché il sorriso degli altri era il suo sorriso. E, quando si accorgeva di non essere riconosciuto, piangeva in silenzio. Come quella sera Locarno ammutolita.
Il cinema è stato la colonna sonora e visiva della sua vita. In ogni film c'era un pezzetto di lui. Il divorzio e i figli lontani di Mrs Doubtfire. Frizzi e lazzi per i militari di Good morning Vietnam che facevano rima con la sua visita alle truppe americane in Irak e Afghanistan. Il dottor Maguire che aiuta Will Hunting, genio ribelle, avendo in comune con lui una figura paterna da discutere. Nella finzione un orco, nella realtà un uomo che rispose sfiduciato al Robin lanciato nell'orbita della recitazione. «Impara un mestiere, figlio mio. Il saldatore ad esempio. Un giorno ti servirà». Ma a lui non tornò mai utile. E ancora Il papà migliore del mondo che lottava contro gli insuccessi delle sue ambizioni. Specchio di quegli Oscar scippati in successione. Daniel Day-Lewis per Il mio piede sinistro gli sottrasse quello dell'Attimo fuggente e Anthony Hopkins per Il silenzio degli innocenti gli rubò quello della Leggenda del re pescatore. Poi arrivò la «vendetta» con Will Hunting. Ma Robin non era il protagonista.
Dall'apice fu discesa. E il Cronauer del grande schermo si ritrovò tra ruoli di secondo piano. Tornò nei locali, nell'abbraccio fatale del whisky. E per la seconda volta si disintossicò. Uscì dal tunnel per mano di Susan Schneider, anche lei in viaggio tra gli alcolisti anonimi. Ma gli eccessi avevano lasciato un cuore minato che iniziò a cedere e due valvole - mitrale e aortica - dovettero essere sostituite. Robin Williams conosceva il male fisico per la prima volta. Durante le riprese di Notte al museo comparvero i segni di quello che i medici diagnosticarono come Parkinson. Ma non lo era. Dave Itzkoff nella sua biografia Robin Williams. Storia di una vita (Mondadori, pagg. 504, euro 25, in libreria da martedì 17 luglio) rivela che a ucciderlo fu la demenza dei corpi di Lewy che colpisce nella senilità, ma nei soggetti giovani può indurre al suicidio. E lui, 63 anni, per il male era un giovane. Nel portafoglio trovarono un biglietto che portava sempre con sé. Era una frase di Ralph Waldo Emerson. «La comicità è la signora del dolore». Quella sera dell'11 agosto 2014 Locarno cambiò programma.
Lo celebrò con One hour photo, storia di Sy, un tecnico della fotografia, vittima delle proprie ossessioni. E di una sterzata che cambiò la vita di un uomo tranquillo. Era un altro frammento di vita. E di lacrime. Per il re dei clown che non si era mai accorto di esserlo.
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