Cultura e Spettacoli

"Avvicino i millennials alla musica classica a colpi di emozioni"

Il giovane direttore d'orchestra: «Incontro il pubblico prima dei concerti per coinvolgerlo»

"Avvicino i millennials alla musica classica a colpi di emozioni"

Il direttore d'orchestra Lorenzo Viotti, origini italiane ma svizzero da generazioni, ha (solo) 29 anni. Ha vinto i concorsi che lanciano, ed è così arrivato a incarichi stabili, dall'anno prossimo sarà all'Opera Nazionale di Amsterdam. Così come fioccano gli inviti delle istituzioni che contano: Opéra di Parigi, Lione, Dresda Zurigo, Vienna.

Alla Scala ha debuttato due anni fa dirigendone l'orchestra Filarmonica mentre in questi giorni vi conduce la sua prima opera, Roméo et Juliette. Il 4, con Andrea Lucherini al pianoforte, dirige i ragazzi dell'Orchestra dell'Accademia scaligera in un concerto per i 20 anni della Fondazione Rava.

Fra i segni distintivi di questo direttore rampante, oltre alla personalità spiccata e a una serietà necessaria ma non così comune, c'è un fare che rompe i cliché, o anche solo i pregiudizi, dell'artista di musica classica. Su Instagram lo vedi discorrere di Weber a bordo piscina e fare sport sulla spiaggia con un fisico alla Roberto Bolle. Viotti sa parlare ai millennials ma anche alla generazione Z, potrebbe essere il nuovo volto della classica.

Che argomenti usa per convincere i millennials che la classica non è un'arte polverosa?

«Che si sbagliano se pensano che la classica è solo per persone di una certa età e con conoscenze specifiche. Semmai è l'unica arte capace di andare direttamente al cuore di tutti: è una lingua universale. Non dobbiamo capire la musica, ma sentirla. La mia generazione deve imparare a prendersi il tempo per essere vulnerabile ed aperta a emozioni forti. E l'opera è tessuta di emozioni forti».

Il punto è che da fuori, il mondo della classica potrebbe addirittura sembrare mummificato.

«In un teatro o sala da concerto non puoi muoverti, parlare, controllare il telefono ed ora che siamo abituati a commentare tutto e subito via telefono, questa atmosfera può inibire. Nei musei le persone non riescono a gioire con gli occhi di un quadro, conta fotografarlo. Quindi è nostra responsabilità dare una mano al nuovo pubblico».

Per questo lo sta incontrando alla Scala prima di ogni recita?

«Sì, perché dobbiamo fare tutto il possibile per attrarre gente a teatro».

Su Instagram, vediamo immagini di lei che fa surf, tennis, nuota, con muscoli scolpiti da costante palestra. Cosa vuole comunicare?

«Sono scatti di una vita normale. Come tante persone della mia età, lavoro e poi faccio dello sport. Credo che troppi colleghi siano chiusi a tutto ciò che esula dalla propria arte, come se fosse un qualcosa di intoccabile. Ciò viene poi percepito dal pubblico».

Fra gli sport, pratica la box. Non teme per le mani?

«Può essere pericoloso, ma io voglio vivere. La box è una medicina, uno sport nobile perché non ti consente di essere aggressivo, semmai devi avere molto controllo e concentrazione».

A 14 anni, perdeva il papà (ndr. Marcello, noto direttore d'orchestra). Quanto l'ha segnata questa tragedia?

«Quando perdi tuo padre a quell'età, non sei più un ragazzo ma diventi automaticamente un uomo. Capisci che la vita può anche essere terribile. Comprendi quali sono le priorità».

La numero uno?

«La famiglia».

Pare molto legato ai tre fratelli

«Sì, tra l'altro siamo tutti musicisti. Marina è cantante e l'avete vista alla Scala, Alessandro suona il corno nell'Orchestra dell'Opéra di Lione e Milena è cornista all'Opera di Monaco. Siamo molto legati e nessuno di noi ha paura del proprio lavoro. Per accadimenti ed educazione, abbiamo imparato quanto sia importante la libertà di fare ciò che si ama. Non ci impressiona lavorare in teatri mitici perché agiamo sempre con un forte senso di responsabilità. E se capita che una nostra prestazione non soddisfi qualcuno, beh... non è la fine della vita».

A Milano l'abbiamo vista con Armani.

«Lo considero l'ultimo degli stilisti di gran classe, un'eleganza che ritrovi negli abiti, nei suoi modi e grado di umanità».

Invece i suoi frack chi li confeziona?

«Karin Agh, viennese. Da sette anni fa abiti per me».

La sua immagine rischia di essere legata anzitutto a quella del direttore belloccio, sportivo, curato nel vestire. È pronto a correre questo rischio?

«Se i media decidono questo, non è un problema per me. Basta che aiuti ad aprire le porte della classica».

Ha studiato pianoforte, canto e percussioni. Cosa e chi è stato particolarmente formativo nel suo percorso di direttore d'orchestra?

«L'esperienza è la scuola più importante. Questo mestiere non lo apprendi in conservatorio. Ho avuto la fortuna di lavorare in orchestre e lì ho incontrato tanti direttori e cantanti: stare fra i leggii è stato molto formativo».

Chi sono stati i grandi della direzione, di ieri e di oggi, che l'hanno ispirata. E in cosa?

«Del passato, penso a Prêtre e Harnoncourt. Quanto all'oggi, la mente va a Gatti e Currentzis. Prêtre era il sorriso della musica, generoso e con grande charme. Di Harnoncourt ho sempre apprezzato il senso del rischio, l'attitudine a fare qualcosa di diverso. Currentzis è uno straordinario musicista, ha sempre qualcosa da dire, sa trarre un suono bellissimo dalla sua orchestra e coro. Anche di Gatti mi piace il tipo di suono che riesce a ricavare».

Il giorno del debutto, come si sentiva quindici minuti prima di entrare nella buca d'orchestra del Teatro alla Scala?

«Non vedevo l'ora di dirigere. In genere non mi sento stressato quando ho un impegno importante, semmai motivato a portarlo in fondo.

È come se bruciassi dalla voglia di mettermi al lavoro».

Commenti