Daniele Abbiati
La cosa tremenda, è che fa paura anche per lettera. In mezzo alle piccole cose di tutti i giorni, vale a dire alle emergenze quotidiane, ai messaggi nella bottiglia vuota (di gin o di whiskey) lanciati nel mare di disperazione dove annaspò per tutta la vita, in mezzo cioè allo stillicidio di elemosine che per lui erano: la richiesta di 10 dollari (o di 5, o di 100, o di 25...), la richiesta di una recensione, la richiesta di una buona parola da spendere presso chicchessia, la richiesta di un articolo da impaginare nella rivista di turno, la richiesta di un pizzico di pietà e di comprensione... insomma, in mezzo agli Sos raramente raccolti dagli interlocutori, Edgar Allan Poe (1809-1849) spesso ci atterrisce lasciando palpitare liberamente, senza il pudore della finzione letteraria, il suo cuore rivelatore.
Rivelatore, intendiamo, di una mente contorta, intorcinata e inchiavardata sul dolore. Per esempio: «Ovviamente, i miei nemici imputarono la pazzia al bere, piuttosto che il bere alla pazzia. Mi ero ormai quasi rassegnato all'impossibilità di trovare una cura durevole, quando la trovai proprio nella morte di mia moglie», cioè della fragilissima Virginia Clemm, che Edgar sposò quando lui aveva 26 anni e lei 13 (lettera del 4 gennaio 1848 a George W. Evelett, suo grande ammiratore). Oppure, rivolgendosi a Sarah Helen Whitman, la sua ultima fiamma (fatua): «Per quanto vi riguarda (...) mi confortò la rassicurazione che dipendevate in tutto da vostra madre. Oserò aggiungere - potete credermi se vi dico che tale conforto mi fu doppiamente gradito quando mi dissero che voi non godevate di buona salute e avevate sofferto a causa di dolori familiari più di quanto non fosse solitamente destinato a una donna?» (18 ottobre 1848). E i corsivi sono suoi!
Sì, le storie più terribili, più claustrofobiche, più angoscianti, Edgar Allan Poe, portandosi dietro il fardello di quell'«Allan», cognome acquisito e mai digerito, da orfano di padre (che aveva abbandonato la famiglia) e di madre (uccisa dalla tubercolosi) all'età di due anni, le scrisse sbrigando la corrispondenza, bussando alle porte, quasi sempre ermeticamente chiuse, degli altri. Fossero gli altezzosi «literati» bostoniani o i micragnosi editori, le tetre damazze con velleità mondano-poetiche o gli sciagurati correttori di bozze, il politico distratto, il generale supponente, il «papà» non papà che qui assume i contorni del convitato di pietra: tutti, in fondo, amici-nemici, ostacoli sul suo cammino verso la libera espressione di un'arte decadente, introflessa, autoreferenziale. E non a caso rimbalzata in Europa per merito prima di Charles Baudelaire, e poi di Julio Cortázar, anime a lui affini.
Il suo universo concentrazionario, delineato dagli invalicabili confini dell'alcolismo e della depressione, emerge nel suo epistolario addirittura con maggior potenza distruttiva rispetto a quella che ben conosciamo per aver letto La maschera della morte rossa, Il pozzo e il pendolo, Il barile di Amontillado, La caduta della casa degli Usher, o la triade al femminile composta da Berenice, Morella e Ligeia. Ora che Barbara Lanati, dopo Vita attraverso le lettere, la collezione epistolare uscita da Einaudi nel '92, ha portato a termine una ulteriore campagna di scavi nel giacimento di lettere non rubate (com'era quella del magistrale racconto, terzo e ultimo della serie di Auguste Dupin dopo I delitti della Rue Morgue e Il mistero di Maria Roget), proponendoci, grazie alla collaborazione di alcune sue ex studentesse, il colossale volume di Lettere che ne comprende ben 332 (il Saggiatore, pagg. 757, euro 48), la persona-personaggio Poe ci si para davanti, con il nero pastrano infeltrito, con l'espressione sofferente, con il carico di eloquenti silenzi, in tutta la sua drammaticità.
«Un adorabile bugiardo» è il titolo dell'introduzione. E se sul sostantivo «bugiardo» non ci sono dubbi (un bugiardo che fra l'altro si mostra privo della principale qualità richiesta a un mentitore, la buona memoria), sull'aggettivo «adorabile» avremmo da ridire, se mettessimo fra parentesi le cure materne che Lanati & C. hanno riservato a un soggetto da prendere comunque con le pinze. Prono di fronte ai potenti o presunti tali, servile nei confronti dei padroni del vapore editoriale in un Paese, gli Stati Uniti, che nella prima metà nel XIX secolo faticava a costruire il proprio canone letterario, inaffidabile come redattore e come confidente occasionale (si vedano le posizioni pro o contro Henry Wadsworth Longfellow e Washington Irving), svenevole nei confronti delle signore assise in mezzo a stucchevoli salotti intellettuali, il nostro, peraltro amatissimo e geniale Poe ci appare come una grottesca marionetta retta dai fili di una perenne recita. Vale comunque la pena di seguire giorno per giorno, se non ora per ora, il suo monologo di istrione dopato dal laudano o dal mesmerismo, per carpirne alcuni lati sorprendenti. Primo fra tutti la reiterata e lungimirante attenzione per il punto, a quei tempi non ancora dolente quanto lo è oggi, dei diritti d'autore. E poi l'evoluta sottolineatura dell'importanza della veste grafica da dare al prodotto letterario. E, ancora, la schiettezza e il realismo con cui, a più riprese, Poe invoca le attenzioni della «casta» (usa proprio questo vocabolo) come viatico per la scalata al successo.
Maestro dell'arabesco barocco, delle cadute nei vari Maelström che sono deliri estatici di dissoluzione, dello sguardo lanciato dentro e oltre una Natura sempre incomprensibile o addirittura nemica, in una parola, sacerdote dell'Irrazionale, Poe coltivava anche, oltre alla razionalità con cui disegnava scenari cosmogonici
e che impiegava per disvelare enigmi, anche il senso pratico dell'imprenditore pronto a scendere a patti con il diabolico mondo. Del resto, romanticamente europeo quanto a indole e forma mentis, era pur sempre americano.- dal lunedì al venerdì dalle ore 10:00 alle ore 20:00
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