Ci sono romanzi e personaggi che per sbaglio si perdono nei ripostigli del tempo e riappaiono più di quarant'anni dopo, come una lettera ritrovata. È il caso di Città di morti (Minimum Fax, pagg. 500, euro 19) di Herbert Lieberman e del suo protagonista, Paul Konig.
Questa è la storia di un mezzo fallimento. L'America lo ignora, la Francia lo esalta, ma Lieberman non viene riconosciuto come un innovatore del noir. È troppo presto. È il 1976 e nei quartieri di New York si respira degrado e violenza. In estate c'è un concerto dei Ramones. Non è il futuro del rock, ma per qualcuno molto meglio: comincia l'avventura del punk. Sui muri della metropolitana ragazzotti con il demone dell'arte e lo sfregio dei vandali disegnano graffiti. Nessuno dorme mai, i ricchi vanno a coca e i miseri si bucano e le puttane si avventurano sui set dell'industria porno. È la New York de Il braccio violento della legge, di Mean Streets e Taxi Driver, quella cantata da Lou Reed. Sono le stesse atmosfere che più tardi racconteranno DeLillo in Underworld, Jonathan Lethem nella prima parte di La fortezza della solitudine e Garth Risk Hallberg in City on Fire, solo che Lieberman è lì e scrive in quegli anni, in diretta, da testimone, con una New York che non sembra avere alcuna speranza, una città di morti, appunto. «L'odore di agnello bruciacchiato, di pilaf unto, di salsicce che friggono sulle piastre degli ambulanti si mescola a centinaia di altri odori e scivola fuori dalle porte aperte come una lingua umida e pungente. E, ovunque, i giovani. Una marea crescente di giovani: studenti, amanti, pittori, poeti mancati, adolescenti barbuti che progettano di costruire un mondo migliore in economiche caffetterie aperte tutta la notte, eroinomani che si aggirano come sciacalli pelle e ossa affamati nella penombra di qualche soglia, valutando soluzioni disperate a problemi disperati».
Il controcanto a questa città in dismissione è un uomo che la vita e il senso del dovere hanno incarognito, uno di quelli che non si arrende alla meschinità del mondo, ma sta lì, burbero e incostante, a fare quello che si deve fare, anche se gli altri hanno perso il rigore e la dignità. Paul Konig è il capo dei medici legali di New York e probabilmente si sarebbe ritrovato a litigare con la sua collega Kay Scarpetta, l'anatomopatologa di Patricia Cornwell. Konig può dire che lui c'era prima e ha un carattere ingombrante. È geniale e disumano, uno che rompe le scatole ai suoi sottoposti, perché è troppo bravo e maniacale, con le fisse dei classici eroi americani solitari e controcorrente, che per ostinazione tengono in piedi la baracca quando tutti gli altri si preoccupano solo del proprio ombelico.
C'è chiaramente un delitto da risolvere, un viaggio nell'abisso della disperazione umana, una figlia (con cui parla a fatica) rapita da un gruppo di terroristi, una corsa contro il tempo e la necessità di fare i conti con i propri fallimenti umani. Lieberman tratteggia la rabbia, la frustrazione e la disillusione di una città che ha perso il baricentro morale. Cosa accade quando nessuno è più pronto a prendersi le proprie responsabilità? Quando tocca sempre agli altri? Quando si confondono i desideri con i diritti? Quando il mondo è solo un teatro di marionette narcise ed esibizioniste? Accade che quelli come Konig si prendono in faccia tutto lo sporco della tempesta che sta arrivando. «Lo faccio perché nessun altro è disposto a farlo. Non interessa a nessuno. Tutta questa gente che lavora con me ora, credi forse che se ne occuperà? No. Per loro è solo un gioco. Sono degli opportunisti, dei ciarlatani. Vengono qui a lavorare con me per tre o quattro anni e poi corrono a cercarsi un lavoro comodo nei sobborghi, un posto in ospedale o all'università.
Lo faccio perché deve essere fatto, e perché non c'è nessun altro disposto a occuparsene. Faccio quello che quei fighetti figli di puttana di Park Avenue con i loro uffici di lusso non faranno mai. Faccio il lavoro sporco. Rassetto casa dopo la festa».- dal lunedì al venerdì dalle ore 10:00 alle ore 20:00
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