Bon Jovi, il rock delle buone maniere

Testi positivi, mai scandali, fedele alla moglie: ecco perché ieri sera ha fatto il tutto esaurito a San Siro

Bon Jovi, il rock delle buone maniere

E per forza San Siro ieri sera era praticamente tutto esaurito: prima volta di Bon Jovi qui dentro e trionfo del rock duro solo per dire, chitarroni a palla e giacche di pelle, ma in fondo buone maniere, altro che heavy metal selvaggio o rave party stralunati. Mai fidarsi delle apparenze: i Bon Jovi hanno lanciato l'hair metal a metà anni Ottanta ma il loro è pop sferragliante e farcito di buoni sentimenti, molto tradizionale e «maanchista» nei testi, velatamente repubblicani come Keep the faith o Born to be my baby (due punti di svolta del concerto) ma pure apertamente democratici come Because we can dal nuovo disco What about now che è conservatore in un altro senso: conserva al gruppo popolarità e code ai botteghini a ogni latitudine. Come dice il titolo di un cofanetto del 2004, 100.000.000 Bon Jovi fans can't be wrong, cento milioni di fan non possono avere torto. Aggiornamento utile: ora sono centotrenta, a giudicare dalle copie vendute. Dopotutto, se dopo la nuova That's what the water made me, una band attacca in uno stadio You give love a bad name, considerato tra i venti brani più belli dell'hard rock dal canale Vh1, difficile non ballare. Gioiosamente. E a tutte le età perché, come spesso capita ai concerti dei supergruppi, le generazioni si incrociano e i figli stanno di fianco ai padri come niente fosse. Forse per questo Jon Bon Jovi, capelli al vento e fisico asciuttissimo alla faccia dei cinquantun anni, è stato accolto sul palco manco fosse il fratello maggiore, quello che ce l'ha fatta persino a Hollywood (ha recitato anche in Young Guns II e U-571) ed è tuttora uno degli uomini più desiderati del mondo ma che in fondo non se l'è mai tirata da megadivo. Il low profile, innanzitutto: mai scandali, mai divorzi («Senza la mia coetanea Dorothea sono come un castello di carte pronto a sfasciarsi»), politica quanto basta e idee ben chiare: la faccia si gioca ogni sera e quindi palla avanti e pedalare modello Bruce Springsteen (idolo), Bryan Adams (coetaneo) e Jared Leto dei 30 Seconds to Mars (discepolo). E pure ora che è orfano del chitarrista Richie Sambora - che sta a lui come Joe Perry a Steven Tyler o Keith Richards a Mick Jagger e, esattamente come loro, sta facendo i conti con qualche dipendenza di troppo - non ci ha pensato un attimo: lo ha lasciato a casa, ha preso un rimpiazzo (l'esperto Phil X) e non ha annullato neanche un concerto del tour dicendo senza giri di parole che «per noi è maledettamente importante dare il massimo ogni sera». Quindi bye bye Richie, qui il rock si suona lucidamente.

Lo sanno anche i fan, che ieri li hanno accolti con coreografie e feste particolari (era accaduto anche a Udine due anni fa) davanti a un palco dominato dalla sagoma di una cadillac blu e una scaletta prevedibile perché quando hai in repertorio brani come Livin' on a prayer o Wanted dead or alive o Bad medicine, o It's my life l'unica sfida è di distribuirli bene e di suonarli meglio, mettendo al centro il pezzo che ha battezzato la favola dell'italoamericano (famiglia di Sciacca, Agrigento) che in America trova l'America, pubblicato proprio trent'anni fa manco fosse un manifesto simbolo: Runaway, fuggiasco, magari a volume alto ma tuttora in fuga, soprattutto dalle solite, banalissime tentazioni. E poi dite che non è controcorrente.

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