Il giudizio più severo lo dette Benedetto Croce nella Storia della storiografia italiana nel secolo decimonono. In quelle pagine egli distrusse un'opera che aveva avuto grandissimo successo popolare e notevole fortuna internazionale. Si trattava del grande affresco di Guglielmo Ferrero intitolato Grandezza e decadenza di Roma, articolato in cinque volumi pubblicati fra il 1902 e il 1907 e dedicato al periodo compreso fra l'età delle guerre civili tardo-repubblicane e il principato di Augusto. Croce fu impietoso e ingiusto: per lui Ferrero si era trovato «assai sovente a navigare sulle scintillanti acque del romanzo storico» e il favore che ne aveva accolto l'opera aveva «procacciato all'estero, piuttosto che stima, discredito agli studi storici italiani». In seguito, poi, arrivò a definire Ferrero «una macchietta del mondo pseudo scientifico europeo-americano» e a farsi beffe persino del presidente americano Theodore Roosevelt, «cacciatore di rinoceronti e di ippopotami» che ne era rimasto entusiasta. Che il giudizio di don Benedetto fosse eccessivo lo dimostra il fatto che, con il trascorrere del tempo, la valutazione degli storici sull'opera di Ferrero (basterebbe, in proposito, citare soltanto il grande romanista Santo Mazzarino) è profondamente cambiata. Tuttavia, quel giudizio è comprensibile nel quadro della contrapposizione tra una visione della storia propria della allora dominante cultura filosofica idealistica e il positivismo.
Il giovane Ferrero quando uscì il primo volume di Grandezza e decadenza di Roma aveva da poco superato i trent'anni aveva conosciuto Cesare Lombroso, del quale aveva sposato la figlia, e aveva frequentato il circolo culturale che si era raccolto attorno a questo antropologo e criminologo di formazione positivista e che annoverava personalità come Gaetano Mosca, Roberto Michels e Luigi Einaudi. Aveva già pubblicato qualche lavoro, come L'Europa giovane, La reazione o Il militarismo, che ne aveva imposto il nome al pubblico genericamente democratico, radicaleggiante e vicino al primo socialismo. In questi lavori, ma soprattutto in L'Europa giovane, egli aveva affrontato il tema del progresso, dell'invecchiamento, dello scontro e della caduta delle civiltà. In un certo senso, la sua grande opera su Roma, cui lavorò diversi anni senza un modello preciso ma attento per un verso alla produzione storiografica di Hyppolite Taine e per un altro alle suggestioni metodologiche del materialismo storico oltre che ai temi economici e sociali, si inserisce in questo suo interesse per la morfologia delle civiltà. Non è un caso che il titolo dell'opera, probabilmente mutuato dal saggio di Montesquieu sulle cause della grandezza e decadenza dei romani, rinvii surrettiziamente alla propensione dell'autore per la tematica relativa alla crisi delle civiltà.
Dopo tanti decenni di assenza dalle librerie, Grandezza e decadenza di Roma torna negli scaffali in una bella edizione curata da Laura Ciglioni e Laura Mecella (Castelvecchi, pagg. 1296, euro 69) che, ai cinque volumi originari, hanno aggiunto, per la prima volte tradotte in italiano, le quattro appendici che Ferrero inserì nell'edizione francese. Per quanto datata, quest'opera resta non soltanto un affresco letterariamente godibile della storia romana nel passaggio dalla repubblica all'impero, ma anche un vero e proprio «classico» della storiografia, soprattutto sotto il profilo della interpretazione della figura di Giulio Cesare. Quando Ferrero si accinse a scrivere Grandezza e decadenza di Roma, gran parte della letteratura in materia era debitrice della visione mitizzante di Cesare contenuta sia nella grandiosa Storia di Roma di Theodor Mommsen sia nella Histoire de Jules César scritta da Napoleone III. Ferrero capovolse questa impostazione presentando Cesare non già come il più grande statista di tutti i tempi, quanto piuttosto come un abile demagogo, un geniale arrivista spinto non da un progetto politico ma dall'ambizione e dalla voglia di potere.
Al di là, comunque, del discorso interpretativo e al di là della suggestione di talune pagine letterariamente ancora godibili, l'interesse maggiore che, oggi, suscita la lettura di Grandezza e decadenza di Roma è da rintracciarsi credo nel fatto che quest'opera possa essere vista, sia pure in quanto caso particolare, come una riflessione sul potere e sull'autorità, sulla legittimità del potere, sulla fenomenologia delle trasformazioni dei sistemi politici e della circolazione delle élites politiche. In altre parole, sotto questo profilo, lo studio di Guglielmo Ferrero su Roma rientra appieno nella sua ottica di studioso delle modalità attraverso le quali una civiltà cresce, progredisce ed entra in crisi: un tema, questo, che nel periodo fra le due guerre mondiali avrebbe richiamato l'attenzione di tanti intellettuali europei e dato vita a una vivace stagione di «letteratura della crisi».
Ferrero, dopo la pubblicazione di Grandezza e decadenza di Roma, sarebbe tornato solo marginalmente ai temi di storia antica preferendo occuparsi di politica contemporanea o, comunque, di storia moderna. Alla metà degli anni venti, per esempio, pubblicò quel volume intitolato La democrazia in Italia, che ricostruiva la storia del sistema politico italiano dall'Unità all'avvento del fascismo e concludeva sostenendo che la «nuova dittatura» fascista era priva di legittimazione popolare: un lavoro, comprensibilmente, sgradito a Mussolini che lo fece sequestrare e ne fece porre l'autore sotto occhiuto controllo della polizia politica. Nella seconda metà degli anni trenta e all'inizio degli anni quaranta, poi, Ferrero pubblicò la bella trilogia, iniziata con Avventura. Bonaparte in Italia, proseguita con Ricostruzione. Talleyrand a Vienna e conclusa con Potere.
I geni invisibili della città che rappresenta, nel suo complesso, un tentativo di diagnosi del fenomeno rivoluzionario e una riflessione sul rapporto fra legittimità e potere. Un riflessione che parte da lontano, proprio dalle pagine di Grandezza e decadenza di Roma.
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