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La Curia, i malati, la politica Tutti i segreti di don Verzé

"La medicina di Dio" ricostruisce la parabola del prete che ideò e realizzò l'Ospedale San Raffaele di Milano

La Curia, i malati, la politica Tutti i segreti di don Verzé

È il 25 aprile 1972, il giorno della Liberazione. L'appuntamento è in una trattoria di Mello, Valtellina, zeppa di alpini che cantano e bevono. Don Verzé entra titubante, ma non ha alternative: il ministro gli ha dato appuntamento in quella baraonda. Sono giorni difficili per il sacerdote veronese: il San Raffaele è agli inizi, pallidi e stentati che più non si può. Il potente assessore regionale Vittorio Rivolta, democristiano, si è messo di traverso: «I preti facciano i preti», ha sentenziato un giorno. E poi, quando l'hanno portato a vedere il cantiere del nascente ospedale ai confini fra Milano e Segrate, Rivolta ha chiuso la questione con tono sferzante: «E dov'è? Io vedo solo prati». Per Rivolta è lo Stato a dare le carte, i privati, anche quelli che hanno idee rivoluzionarie come don Luigi, non li può sopportare. Bisognerebbe scavalcarlo, ma come? Ecco, quel faccia a faccia in trattoria potrebbe essere la soluzione.

Il frastuono è indescrivibile, ma Athos Valsecchi afferra i fogli del dossier: «Sembrerebbe un posto infelice per parlare - scrive Carmelo Mezzasalma - e invece in quella confusione, in quel caldo da sardine in scatola, il ministro riesce a leggere lo Statuto e la costituzione del nostro Ente, lo vediamo sobbalzare agitando quei fogli». È fatta: «Ma voi - ci grida sulle orecchie - voi siete un istituto di ricovero e cura a carattere scientifico, il ministero vi deve riconoscere e lo farà».

Valsecchi è di parola e il riconoscimento arriverà. È la svolta che manda in fuorigioco le obiezioni del Pirellone, come documenta Mezzasalma nella monumentale biografia La medicina di Dio, in uscita da Luni editrice. Mezzasalma ricostruisce la lunga parabola di don Verzé e affolla il testo come un mercato nell'ora di punta, senza perdere mai il controllo della narrazione. Ci sono don Calabria e il cardinal Schuster, la curia e la gente comune, medici e malati, in un turbinio di episodi. E i dettagli fanno la differenza: «È il 3 novembre 1971 quando nell'ospedale ancora deserto entra il primo ammalato. Si chiamava Alessandro Casiraghi ed era stato ricoverato d'urgenza a causa di un infarto».

Tutto bene? Sì, ma anche no: che succede se poco dopo una signora rischia di andarsene all'altro mondo? «La situazione per la donna - racconta l'autore - precipita immediatamente in arresto cardiaco. È un momento di panico. La donna è quasi esanime. Ricorderà don Verzé: Non poteva morire la prima ospite del San Raffaele». Per fortuna, il pericolo viene scongiurato. La sfida è vinta, una delle innumerevoli che hanno segnato l'avventurosa, quasi temeraria esistenza dell'allievo di don Calabria. Vulcanico e inquieto, sempre fuori dagli schemi, comunque lo si voglia giudicare. Fra strappi e ricomposizioni, incomprensioni e visioni quasi profetiche.

I rapporti con i potenti sono difficili e tormentati e forse il più tormentato di tutti è quello con l'arcivescovo di Milano Giovanni Battista Montini, successore di Schuster e futuro papa. Un personaggio amletico, ancora di più con quel prete veronese che si è messo in testa di creare un nosocomio a 5 stelle, scompigliando tutti i criteri dell'epoca. All'inizio il cardinale sembra condividere quell'intuizione così ardita. «È finita l'epoca dei lazzaretti - attacca don Luigi - non è nemmeno più il tempo di una medicina erogata come paternalismo assistenziale, magari solo per i ricchi». L'arcivescovo quasi trattiene il fiato, poi replica: «È un progetto grandioso, un progetto ammirabile. Ma si ricordi che, se comincia, dovrà andare fino in fondo. Io la prenderò sotto la mia protezione».

Ma le cose vanno in un altro modo. Affiorano dubbi e vengono formalizzate accuse e contestazioni. Montini è stufo di quel prete che sembra calamitare grane e problemi di ogni tipo. Nel corso dell'ennesimo colloquio quasi lo fulmina: «Se la sua opera è di Dio, allora io mi dimetto». Altro che scudo. Un mese dopo, l'arcivescovo pronuncia parole che paiono definitive: «Torni a Verona a fare il buon prete!». Il San Raffaele rimarrà un sogno o, al massimo, un plastico.

In realtà i colpi di scena non sono finiti: quando Montini, nel giugno 1963, parte per il conclave che lo porterà sul soglio di Pietro, don Luigi, testardo più di un mulo, torna alla carica: «Mi dia la sua benedizione». «Sarebbe un illuderla», è il saluto del cardinale che però non rompe. Non lo manda via, anche se il San Raffaele resta ancora bloccato. Poi, in breve, la situazione si capovolge e alla periferia di Milano don Verzé comincia a edificare la cittadella della salute, costruita sui terreni che gli ha venduto, anche se lui non aveva un centesimo, il conte Leonardo Bonzi, aviatore, produttore cinematografico, campione di bob, tanto da partecipare alle Olimpiadi di Chamonix, e marito dell'attrice Clara Calamai.

Alti e bassi. Scontri e incontri fortunati: quello con Massimo Cencelli, passato alla storia per il manuale Cencelli, che lo porterà nei meandri delle mutue romane. E quello con Silvio Berlusconi: «C'era una sola possibilità per non chiudere l'ospedale, allacciare la fognatura a quella di Milano 2». Ma gli abitanti sono contrari, come gli architetti. Una partita persa: «E invece Berlusconi risponde con una sola frase: si fa».

Ma c' è ancora tanto altro, prima della morte e del disastro finanziario finale, appena accennato nelle ultime righe. C'è soprattutto il duello durissimo con Francesco Saverio Borrelli e la drammatica operazione per salvare Bettino Craxi, con il San Raffaele in trasferta a Tunisi: «La lampada scialitica - racconterà il professor Patrizio Rigatti - non stava ferma, non si riusciva a vedere bene dove tagliare. A quel punto abbiamo chiamato dentro un ragazzo tunisino e l'abbiamo messo lì, a tenere la luce ferma con le mani».

Qualcosa che ricorda, quasi cinquecento anni dopo, Giovanni dalle Bande Nere che sorregge la candela mentre il chirurgo gli amputa la gamba. Ma anche il segno dell'assenza di misericordia nella nostra epoca.

Per questo, don Verzé è più grande dei suoi errori.

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