Un film coraggioso, ambizioso, persino potente. Un film didascalico, lacunoso e reticente. Quando ci si imbarca in una ricostruzione come questa - la strage di Piazza Fontana, vero buco nero della storia d’Italia dove s’intrecciano e aggrovigliano neofascisti e anarchici, servizi segreti e poteri occulti - è inevitabile che ne scaturiscano polemiche e dissensi. Prodotto da Cattleya e Rai Cinema, distribuito da venerdì in 250 copie, diretto da Marco Tullio Giordana (I cento passi, La meglio gioventù), con un cast superbo (Valerio Mastandrea è Luigi Calabresi, Pierfrancesco Favino è Giuseppe Pinelli, Laura Chiatti è Gemma Capra, Fabrizio Gifuni è Aldo Moro), Romanzo di una strage cita un articolo di Pasolini del novembre 1974 intitolato «Cos’è questo golpe? Il romanzo delle stragi». E ne prende in prestito la tesi - «Io so... Ma non ho le prove» - per dire che oggi, «passati più di quarant’anni, sapere è più forte di affermare “ho le prove”». Qui sta l’ambizione del regista e degli sceneggiatori Sandro Petraglia e Stefano Rulli. Nel tentativo di proporre un’opera che ricostruisca e sintetizzi tutte le piste investigative che, in realtà, per la bomba che il 12 dicembre 1969 provocò 17 morti e 90 feriti, non hanno condannato nessun colpevole.
«È un film lontano da ideologie, rivolto ai ragazzi, a chi non sa niente e a chi non conosce i fatti», dice Giordana. Ed è per questo che in alcune parti risulta didascalico, tanto più coinvolgendo un’infinità di personaggi, politici, investigatori, carabinieri, attivisti dell’estrema destra veneta e della sinistra anarchica milanese, golpisti, giornalisti famosi, Giangiacomo Feltrinelli, magistrati come Ugo Paolillo e un giovane Pietro Calogero. Il tutto restituito con aderenza e credibilità. Anche nei dubbi che tormentano Luigi Calabresi dopo la morte di Pinelli, precipitato dalla finestra della sua stanza al termine del terzo giorno d’interrogatorio.
Il figlio Mario, oggi direttore della Stampa, ha riconosciuto che Romanzo di una strage «è un’opera coraggiosa perché mostra con chiarezza che mio padre non era nella stanza quando Pinelli cadde». Ma lui e la madre, Gemma Capra, avrebbero voluto un ritratto più completo di Luigi Calabresi. «Gigi era spiritoso. Nel film invece è duro, tutto d’un pezzo, non sorride mai. No, non l’ho riconosciuto», ha confidato la vedova.
Al di là delle lacune psicologiche, la lacuna maggiore del film è di natura storica. Il commissario Calabresi venne ucciso sotto casa la mattina del 17 maggio 1972 al termine di una violentissima campagna nella quale Lotta continua lo additava come responsabile della morte di Pinelli e gli annunciava che «il proletariato emetterà il suo verdetto e nelle piazze e nelle strade lo renderà esecutivo». Mario Calabresi ha sottolineato questa pesante omissione: «I due anni terribili della campagna di Lotta continua contro mio padre non ci sono, se non per qualche vago accenno: una scritta sul muro, i fischi al processo. Ma se nascondi quella campagna... si fa fatica a capire perché sia stata condannata Lotta continua». Per i produttori quegli accenni sono sufficienti.
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