Parla come se stesse suonando, Omar Pedrini. Lento e sorridente come un rock vecchio stile e sofferto come un blues zuppo di Mississippi. Ha fondato i Timoria quasi trent'anni fa, poi dopo ha iniziato a correre da solo: voce e chitarra, tutto molto beat e molto vero. Lui è un gioiello vagante del rock italiano, in equilibrio sulla sottile linea rossa che mette in fila musica, letteratura e memoria. «Jack Kerouac è sempre stato uno dei miei fari», dice timidamente adesso che è appena uscito il suo nuovo disco, che si intitola Che ci vado a fare a Londra? ed è il primo dopo otto anni. Forse è addirittura il primo della sua seconda vita, visto che Pane burro e medicine del 2006 era un album tra parentesi, suonato, come ricorda, «in convalescenza tra il letto e le passeggiatine a casa di mamma» dopo il devastante aneurisma aortico e l'intervento a cuore aperto che l'avevano messo quasi in fila per il Paradiso. «Ora il guerriero ritorna, come dicono i miei tifosi», spiega godendosi l'exploit su iTunes e la rotazione del singolo Che ci vado a fare a Londra? persino su Rtl 102.5 e Radio Deejay. «Mi assaporo questo risultato minuto per minuto» dice spargendo gioia.
Però, caro Pedrini, addirittura otto anni per incidere un disco?
«E per registrarlo mi sono persino venduto il pianoforte, il mio carissimo pianoforte».
Il risultato?
«Quattordici brani che raccontano gli esseri umani incontrati nel mio viaggio. Da Jenny adolescente al contadino Piero all'ottantenne Nina che mi parlava dei partigiani tristi e degli amori di D'Annunzio sul lago di Garda. E' stato un disco difficile ma è venuto come dio comanda. Grazie anche a due epifanie».
Ossia?
«Una è stato l'arrivo di Ron, che ha ascoltato le mie canzoni prima ancora che fossero registrate e ha detto: Sarebbe un crimine se il pubblico non le ascoltasse. Così mi ha ospitato nel suo studio di incisione e compare anche in Gaia e la balena con Dargen D'Amico».
E l'altra?
«L'incontro con il management degli Oasis attraverso il manager italiano Andrea Dulio. Al concerto di Noel Gallagher a Firenze mi ha chiesto il demo dei miei brani e dopo due mesi mi ha telefonato per dirmi: Preparati, questo weekend andiamo a Londra. Io avevo di fronte Veronica, che ora è mia moglie ed era già incinta, e mi sentivo molto titubante».
Perché?
«Per un'occasione del genere a vent'anni avrei attraversato la manica. Adesso tante cose sono cambiate. Ma Veronica mi ha spronato. E così mi sono ritrovato a tavola con i Primal Scream e con i The Folks, che adesso suonano con me: saremo insieme anche a Che tempo che fa di Fazio».
Omar Pedrini frequenta la tv. Prima Rai 5, ora Sky Arte. Insegna alla Cattolica e recita a teatro: la piece Sangueimpazzito su John Belushi ha registrato un mese di tutto esaurito al Parenti di Milano.
«Però la musica per me è il fuoco. The unforgettable fire, come direbbero gli U2».
Nel disco c'è anche Poetry as insurgent art: musica di Pedrini, testo di Lawrence Ferlinghetti, un maestro della poesia beat.
«Ci siamo scritti tanti anni fa e, quando ha scoperto che sono di Brescia, ha detto: Anche mio padre veniva da lì, ma non l'ho mai conosciuto. Da allora siamo rimasti in contatto. Nel 2002 ci siamo esibiti insieme. Stavolta gli ho chiesto di musicare una poesia che ha scritto quando era un ragazzino, cioè aveva 89 anni. Adesso che ne ha 95 ed è maturo (ride - ndr) mi ha dato il permesso di farlo. Dopotutto il mio rock si accompagna all'America delle sue poesie».
Un paese che va dal folk al soul al blues.
«E c'è molto blues in questo disco, basti pensare all'assolo di Che ci vado a fare a Londra?. Il blues come se fosse suonato da un inglese, però».
O come se fosse suonato da un sopravvissuto.
«La malattia, che mi obbliga ancora a tremare di paura e a fare sempre controlli, mi aiuta a vivere la mia vita serenamente, giorno dopo giorno, come se ci fosse un solo domani e non soltanto un cumulo di angosce».
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