Salvatore Accardo è abituato a viaggiare con il suo violino accanto. «Se per caso non ce l'ho quando sto scendendo dall'aereo, mi sento vuoto». Tra pochi giorni partirà per Cuba, con la moglie Laura Gorna (sua ex allieva e violinista anche lei) e le due figlie gemelle. Il 2 dicembre suonerà all'Havana, per la Settimana della cultura italiana. È un ritorno: c'era già stato, prima di Fidel, nel '58. «Avevo 17 anni e mi accompagnava mio padre Vincenzo».
Viaggiavate insieme?
«Non potevo andare da solo, ero un ragazzino. Lui si divertiva, in aereo giocavamo a scopa. Quel viaggio poi fu lunghissimo, c'erano ancora i quadrimotore a elica».
C'era ancora anche Batista.
«Sì. Feci un concerto all'Havana. Era tutto molto problematico, ma andò bene. Qualche anno fa, Abbado mi chiese di aiutarlo a raccogliere degli strumenti da Cremona, per gli studenti di musica».
I ragazzi sono anche i protagonisti del suo progetto al Teatro Eliseo, a Roma.
«Sì. Abbiamo già fatto due concerti, c'erano moltissimi ragazzi che hanno ascoltato e fatto domande. Grazie a un progetto di mia moglie, l'Orchestra da camera italiana ha dato delle borse di studio a una decina di ragazzi».
Chi sono?
«Violinisti e violoncellisti della Accademia Stauffer di Cremona. Possono suonare con noi e capire quello che facciamo. La musica è un insieme meraviglioso di emozioni fra pubblico ed esecutore ed è divertente, anche se a volte viene insegnata come qualcosa da maneggiare con attenzione...»
Lei che docente è?
«Uno col sorriso. La cosa importante è non mettere il proprio talento davanti alla musica, bensì usarlo al servizio di essa. Per me l'insegnante migliore è quello che non fa fare cavolate».
Per esempio?
«Prevaricare la partitura. Se c'è scritto forte, non puoi fare piano. Io questo non lo ammetto. In primo piano ci deve essere il compositore. Poi con questi ragazzi ridiamo anche molto, ai napoletani ho dato dei soprannomi in dialetto. Perché io ho vissuto tutta la giovinezza a Torre del Greco».
Però è nato a Torino.
«Per caso. Durante la guerra, mia madre per partorire era andata da sua sorella, a Torino. Mio padre era in Germania a lavorare».
Che cosa faceva?
«Incideva cammei col bulino. Era O' bulinaro. Realizzava ritratti, come questo di Pio XII. A noi non ne fece mai, neanche uno».
Come ha scoperto la passione per il violino?
«Non l'ho scoperta. Credo che il violino abbia scoperto me. Avevo tre anni e mi divertivo a costruire giocattoli in legno, che somigliavano a un violino: mettevo degli elastici che, più o meno tesi, davano suoni diversi e facevo dei motivi».
Quando ne ebbe uno vero?
«Lo chiesi a mio padre. Passò un giorno intero a Napoli, dove era andato a piedi, per cercarlo; tornò che io già dormivo e me lo lasciò ai piedi del letto. Era minuscolo: vede quello lì, nella vetrina? Lo trovai al mattino e cominciai a suonare Lili Marlene nel letto. A mia madre venne un colpo».
E poi?
«Mi portarono in giro per il quartiere: Salvatore suona. Questa meraviglia degli altri mi meravigliava, perché per me era la cosa più naturale del mondo. E poi ebbi la fortuna di trovare un maestro fantastico, Luigi D'Ambrosio».
Che cosa le insegnò?
«L'impostazione giusta. Da lì viene la mia intransigenza, verso la musica e verso me stesso. Mi diplomai a tredici anni, con un permesso speciale del Ministero. Poi andai all'Accademia Chigiana, su consiglio di un amico violista del Quintetto, perché a Siena avrei incontrato altri musicisti».
Fu così?
«In quegli anni c'erano Abbado, Mehta, Barenboim. Parlare di musica, confrontarsi, suonare insieme è una delle cose migliori della nostra professione».
Siete rimasti amici?
«Molto. Abbiamo anche lavorato insieme, con Mehta a gennaio faremo un concerto al San Carlo a Napoli. Con Abbado e Pollini facevamo partite interminabili partite a scopone, in vacanza in barca».
Che cosa prova quando suona?
«Tante cose. Alla fine sono sempre scontento. Vorrei sempre fare meglio. Ma la cosa importante è la grande emozione che il musicista deve sentire e trasmettere al pubblico. Se non succede, c'è qualcosa che non funziona».
La tecnica conta?
«È fondamentale per poter fare musica, non fine a se stessa».
Che cosa serve a un musicista? Il talento, la tecnica, l'orecchio?
«Tutto. Come ha detto David Oistrach, uno dei più grandi di sempre, la tecnica va posseduta per poterla dimenticare. Senza tecnica è impossibile, però è impossibile anche avere solo la tecnica».
Succede?
«Succede se non trasmetti emozioni. O con quei supertecnici che pensano solo a mettersi in mostra. Se suono il Concerto di Beethoven devo servire il Concerto, non fare in modo che serva a me».
Suona ancora ogni giorno?
«Sì. Un paio d'ore. Ma non ho mai superato le sei».
È faticoso?
«Eh, un po'. Il musicista è come un atleta: devi allenarti».
È vero che avrebbe potuto fare il calciatore?
«A Torre del Greco ero un buonissimo portiere, paravo i rigori. Un giorno vennero due osservatori del Napoli: papà li cacciò via. Giocare in porta non è la cosa più adatta per un violinista».
Sogna di suonare qualcosa?
«Ho suonato credo tutto, però sogno di dirigere. La Carmen, un'opera che adoro come anche le mie figlie, e il Requiem di Verdi».
Il violino che cos'è?
«Un prolungamento del corpo. E va suonato, spesso. Al bicentenario, i genovesi non volevano che portassi quello di Paganini dal liutaio, ma aveva bisogno di manutenzione».
Non è un violino speciale?
«È speciale perché era di Paganini, ma è un violino come tutti gli altri: un Guarneri del Gesù. Io ne ho uno dello stesso liutaio, del 1730. Mia moglie ne suona uno del '600, di scuola bresciana. Poi ho strumenti del '900, però consideri che a un violino servono almeno sessant'anni perché inizi a dare il meglio».
Parla coi suoi violini?
«No. Li suono. Però li tratto bene. Il mio maestro diceva: se tu tratti male il violino, lui ti tratta peggio».
Che cosa succede quando si suona?
«Oistrach diceva che, quando suoni, viene fuori la tua personalità: se sei un ciarlatano, viene fuori un ciarlatano. Ti spogli completamente. Si suona come si è».
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