Scrive Geoff Dyer in Sabbie bianche, a proposito del dipinto di Elihu Vedder The Questioner of the Sphinx, che è un'opera «emblematica di una esperienza», che attraversa tutto il suo nuovo libro (appena pubblicato da il Saggiatore, pagg. 218, euro 20): «Cercare di comprendere che cosa significa un certo luogo; che cosa sta cercando di dirci; perché ci andiamo». Sabbie bianche è, appunto, un libro sui luoghi, e su quello che ci dicono. «A me sembra che, quando decidi di andare in un posto, ci sia qualcosa che ti chiama attivamente, ti attrae» dice lo scrittore inglese (è nato a Cheltenham nel 1958), che risponde al telefono da casa sua, a Los Angeles, dove si è trasferito da qualche anno. «Mi piace questa idea di una relazione a doppio senso».
È il concetto di «nodalità» di D.H. Lawrence?
«Una forza elettrica, quasi radioattiva che viene da un posto, e che ispira tutti i cambiamenti che la storia compie in quel luogo. Non succede ovunque».
Dove succede?
«Tutta Roma, e il Colosseo in particolare hanno questo potere. Per me, l'esperienza più intensa è stata in Libia, a Leptis Magna: ho sentito un potere primitivo».
Nelle sue storie c'è sempre molto umorismo...
«Credo che il mio sia un senso dell'umorismo inglese. Mi piace averlo, non solo nei libri, anche nella vita. Non so come alcuni possano sopravvivere senza».
Che funzione ha?
«Spesso l'umoristico e il divertente sono visti in opposizione al serio. Invece credo che l'umorismo accresca la serietà; così come le cose serie migliorino il divertimento. L'umorismo è importantissimo per me».
Perché vive in California?
«Il clima a Londra è terribile. Qui la luce del sole è pazzesca».
Il capitolo Pellegrinaggio racconta delle domeniche trascorse a vedere le case californiane dei «grandi esuli»: Adorno, Mann, Schönberg, Stravinski, Brecht.
«Il titolo viene da Pilgrimage, il pellegrinaggio molto serio compiuto da Susan Sontag da giovane a casa di Thomas Mann. Una delle caratteristiche del pellegrinaggio laico è che spesso è deludente. Quando un musulmano va alla Mecca non è mai deluso. È a Varanasi che ho vissuto l'esperienza più grandiosa, anche se non sono induista. Ma può succedere che tu vada a vedere la casa di uno scrittore e non senta alcuna vibrazione».
Perché dice che Karl Ove Knausgard e Roberto Calasso sono «autori-fiore all'occhiello», come era Adorno?
«Perché Knausgard e Calasso, che mi piacciono entrambi, in modi diversi sono sintomatici di una certa stanchezza nei confronti delle convenzioni del romanzo tradizionale. In entrambi non c'è trama. Che cosa cerchiamo oggi in un libro? Non deve intrattenermi, a quello ci pensa già youtube: il libro oggi è libero dalla necessità che le persone rimangano attaccate alla pagina, grazie a qualche trucco dell'intreccio».
Perciò non ama la separazione tra fiction e non-fiction?
«Per quello che faccio, la distinzione non è importante. Nessuno si sente imbrogliato. Di solito si guarda alla non-fiction come qualcosa che offra informazioni, invece per me è importante l'arrangiamento estetico e di forma».
Ma i romanzi le piacciono?
«Sì. Però quelli con una trama minima, come in Updike: giusto quel poco che serve a fare girare le cose. Amo le osservazioni sulla vita e sul mondo, le idee: non c'è bisogno di trama per quelle».
Ama anche i dettagli.
«Oh sì. La scrittura è tutta nell'osservazione dei dettagli. Updike è bravissimo in questo, come Calvino. E poi è questione di tono: è quello che mi coinvolge».
Qual è il suo tono?
«Una combinazione di umorismo e serietà. Le persone a cui non piacciono i miei libri di solito non reagiscono all'umorismo, pensano che sia un idiota: ma io lo so, che sono un idiota».
A differenza di tanti scrittori è molto salutista, molto ordinato e sembra perfino felice.
«La felicità va e viene, però mediamente per la mia età sono felice. Non posso fare quanto vorrei, per esempio col tennis; però quando gioco sono molto più felice di quando lo facevo ogni giorno».
È vero che voleva scrivere un libro sul tennis?
«Sì, ma alla fine ne ho scritto uno su Tarkovskij. L'editore è stato molto accomodante».
E il prossimo, che uscirà nel 2018?
«Sarà sul fotografo Gary Winogrand. Farlo è stata una felicità rara, ho imparato molto di lui. Del resto una delle ragioni e dei piaceri di scrivere è l'auto-formazione».
È cresciuto in una famiglia della working class britannica, in cui non si leggeva molto ed è diventato uno scrittore. Una specie di miracolo?
«Il contrario. C'è una spiegazione semplice: sono uno dei numerosi beneficiari della politica economica del partito laburista dopo la Seconda guerra mondiale. Ne sono consapevole, ed eternamente grato. Ho avuto la sanità gratis, le scuole gratis, sono andato a Oxford quasi gratis. E, per anni, dopo l'università ho vissuto di sussidi».
Si annoia mai?
«Da sempre mi annoio facilmente, però sono anche incredibilmente interessato alle cose. Forse anche perché sono cresciuto da figlio unico. Per uno scrittore però è utile: puoi riempire il tempo e interrompere la noia scrivendo».
Il suo libro più famoso è Natura morta con custodia di sax. Storie di jazz. I libri possono essere come il jazz?
«Quel libro ha un carattere di improvvisazione, ma doveva averlo. Bisogna trovare una forma appropriata al contenuto e non imporla. Si può dire che l'arrivo della forma appropriata sia una forma di improvvisazione».
Il suo stile è apparentemente leggero.
«La leggerezza è lavorata, cercata. A volte la prima versione è troppo rigida, quindi la rilasso apposta. Spero che la leggerezza sia compatibile con l'espressione di idee interessanti: ciò a cui miro è la chiarezza».
Ama la letteratura americana. Chi in particolare?
«Moltissimo Kerouac e Fitzgerald. Il mio libro Paris Trance è una versione di Tenera è la notte: in Fitzgerald c'è quella prossimità della malinconia alla felicità, c'è il fatto che le cose possano essere divertenti e serie allo stesso tempo. Però il romanzo che ho letto più di ogni altro è stato I nomi di Don DeLillo».
Nei viaggi, nei libri è sempre in cerca di qualcosa: di che cosa?
«Bella domanda. Ma non ho la risposta. E perciò forse è quello che sto cercando».
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