Cultura e Spettacoli

Li mortacci sua... Così ha trasformato anche l'uscita di scena in un atto unico

Pare quasi abbia scelto la data per farsi beffe della tragedia, da autentico poeta dell'Urbe

Li mortacci sua... Così ha trasformato anche l'uscita di scena in un atto unico

Se ne è andato a ottanta anni spaccati. Nel giorno del suo compleanno. Il giorno della festa dei morti. Quando a Roma si dice: «Li mortacci vostra!». Gigi Proietti in uno zac, ha battuto con il pugno tre colpi: sberleffo-fatalità; giocata vincente all'Ippodromo (fu conosciuto dal grande pubblico per il film Febbre da cavallo, girato a Tor di Valle che non esiste più; ma il galoppo a Capannelle, sì), e un colpo da teatro magistrale; come se, appunto, fosse morto in scena. Del resto Giocachino Belli ha scritto Er cimitero della morte: «Ner guardà cquelli schertri io me so accorto/D'una gran cosa, e sta cosa è cquesta:/Che ll'omo vivo come ll'omo morto/Ha una testa de morto in de la testa». L'immenso poeta poteva fare ciò perché la morte, a Roma, è l'ombra costante della vita di cui non si fa tragedia ma si esorcizza ogni minuto imprecando i morti (un modo anche per evocarli e pregarli). L'opposto di Napoli, che la morte la conduce su carrozze trainate da cavalli. Infatti, ancora non a caso, Sergio Citti girerà Mortacci.

Gigi Proietti per morire si è studiato il giorno, non la parte. Roma è carica di rovine esposte all'aria come carogne che convivono con grandi quinte cinematografiche. Disse proprio questo Wim Wenders quando sbarco per la prima volta nell'Eterna: «A ogni passo si alza un set». Proietti è l'ultimo teatrante che ha incarnato questo barbarico e orgiastico banchetto che solo Roma può produrre: la morte sempre in mezzo alle palle. Non è stato un grande attore di cinema e televisione. A esempio, al Maresciallo Rocca ha prestato i grandi talenti di un altrettanto grandissimo caratterista. Infatti la signora Clara, nata alla Garbatella e vissuta a Trastevere, morta pure lei il 2, vedendo Proietti diceva: «Bell'omo questo. Fa er carabiniere. Da mo che gira. C'ha pure lui n'età». È in A me gli occhi, please che Gigi sistema le questioni. Intanto, quale Belli? Quale Trilussa? Lui s'arisucchia Petrolini e Cacini. Del primo ne assume la immobilità del rettile che può, in un baleno, scattare o spezzarsi in tanti segmenti; del secondo si beve la sbruffoneria, lo stare in piedi sul palco pronto a ricevere dal pubblico pomodori, uova marce, mortacci tua!

Nello sterminato monologo Gigi Proietti allargava a tutta Roma le viscere della stessa città. Si ficcava nel suo intestino e lo sezionava. Toccava gli eventuali polipi, i diverticoli e le diverticoliti. Col corpo asciutto si trasformava in endoscopio facendo ascoltare e vedere le mazze e gli oltre duemila suoni che produce la pancia. La trippa di Roma. La sua grandezza non è stata mai legata al copione, alla cultura del Teatro. Gigi incarnava il pischello, il malandrino, il paraculo, il bonaccione. Poteva prendere una cassetta di legno da un banco di mercato rionale e salirci su a recitare. Ecco, Gigi è stato l'unico, più di Carmelo Bene, a saper fare teatro senza commedia o tragedia; insomma senza parte scritta. Poteva tenere due ore con un pezzo di canovaccio. Le carrettate di ore recitate indicano non le «repliche», bensì un Atto Unico.

La prima e basta.

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