
A Wimbledon giocano tutti avvolti in tessuti candidi, ingurgitano fragole con panna, sbattono i palmi delle mani con moderazione e indossano completi chic persino per respirare. È un rito più che un torneo, una liturgia che premia la compostezza, la pulizia del servizio-volée, l’eleganza al di sopra della forza. Come potrebbe allora André Agassi, nell’estate del 1992, evitare di storcere il naso? A ventidue anni sente di non appartenere a quel mondo, nemmeno in piccola parte. Nessuna deferenza verso l’etichetta, nessuna predisposizione all’erba, nessuna inclinazione alla pazienza. E allora: com’è possibile che in fondo a quell'edizione si trovi a sollevare un trofeo? Forse è perché il tennis talvolta smentisce sé stesso. Talvolta, l’eccezione diventa regola per una settimana, e cambia tutto. E in questo luglio londinese, Agassi è l’eccezione perfetta.
Non è destinato a brillare su quel terreno. Anzi, pare un corpo estraneo, un infiltrato nel tempio. Quando si presenta, ha tre partecipazioni e due eliminazioni immediate alle spalle. L’erba è troppo scivolosa, troppo rapida, troppo distante dal cemento del Nevada in cui è venuto su. Un ecosistema ostile per chi vive di anticipo e rabbia, di dritti secchi come fendenti, di un gioco ruvido e ribelle. Nessuno lo attende. E proprio per questo si rivela letale.
Arriva con l’aria del turista disilluso, lo sguardo ironico, il completo bianco indossato con malcelato fastidio, e la solita maglietta oversize firmata Nike. I puristi lo osservano come si guarda un punk a un concerto di musica barocca: curioso, ma fuori posto. Capelli lunghi, orecchino, atteggiamento da divo riluttante. Nulla in lui è “Wimbledon”, eppure — paradosso meraviglioso — il salotto più luccicante del tennis è pronto ad accoglierlo.
Il cammino è impervio, ma rivelatore. Supera Becker ai quarti e McEnroe in semifinale: due divinità dell’erba, due codici di gioco che il Centre Court conosce e celebra da un pezzo. E poi la finale, contro Goran Ivanišević, il bombardiere croato dal servizio micidiale, un tizio che trasforma ogni servizio in una prova balistica. Tre set equilibratissimi, tre tie-break, un quarto strappato con grinta e istinto, e infine un quinto che è più battaglia interiore che tennis giocato.
Sul 6-4 finale, Agassi si inginocchia sul sacro prato del Centre Court. Le mani al cielo, gli occhi umidi, il cuore finalmente in pace. È il gesto simbolico di un ragazzo che, per la prima volta, accetta le regole del gioco senza tradire sé stesso. Wimbledon, quel giorno, non consacra soltanto un nuovo campione: trasforma la narrazione del tennis. Vince uno che, teoricamente, non dovrebbe mai farlo. Uno che rifiuta le gerarchie e si ritrova con in mano il trofeo più aristocratico del circuito. Una scena quasi surreale: come se un poeta di strada venisse accolto in Accademia. Come se il figlio della contestazione ricevesse la benedizione dalla monarchia.
La vittoria di Agassi nel 1992 è molto più di un’impresa sportiva. È l’inizio di un’epoca nuova. È l’ingresso del tennis nell’adolescenza estetica, nel culto dell’immagine, nell’informalità che però sa vincere. L’erba non è più la stessa. E nemmeno Agassi. Fino a quel punto è un talento irrisolto, un'icona sfornita trionfi, un volto celebre che non solleva nulla. Adesso, finalmente, diventa leggenda. Non vince solo con la forza e con il braccio, ma con intelligenza, cuore e — sorprendentemente — disciplina. Quella disciplina che ha sempre detestato, ma che in fondo cerca.
È uno di quei momenti in cui il destino si piega all’imprevedibile. Il ribelle che non ama l’erba, inchinato nel luogo più solenne dello sport, a pregare per la materializzazione di questo suo personale miracolo.
Un giovane uomo che corre sempre controvento, finalmente fermo, trionfante, a braccia alzate nel luogo dove nulla si concede al disordine. Nel 1992, Wimbledon si arrende ad Agassi. E Agassi, per una volta, si concede a Wimbledon.