Innanzitutto parlare di intelligenza artificiale è fuorviante: «Molti usano quella parola per qualcosa che io non considero intelligenza. Per me è ingegno artificiale, non intelligenza. Come nel caso delle macchine che giocano a scacchi: non capiscono quello che fanno». È per posizioni come queste che Roger Penrose, matematico, fisico, cosmologo, laureato a Cambridge, attualmente (compirà 87 anni l'8 agosto) professore emerito all'Istituto di Matematica a Oxford, amico di Stephen Hawking, con il quale ha condiviso il premio Wolf per la fisica nel 1988, da molti è considerato «oltraggioso». Nell'era dell'intelligenza artificiale lui sostiene che «l'intelligenza necessita della coscienza» e richiede «la comprensione delle cose». Questa visione, che Penrose ha raccontato anche al pubblico che ha affollato l'incontro, organizzato lo scorso weekend a Milano da Università di Pavia e Associazione culturale Communitas, fra lui e il filosofo Emanuele Severino, «per molte ragioni è considerata controversa», ammette, seduto a un tavolo dell'albergo milanese dove ha soggiornato, con il sorriso dei matematici britannici, quello che forse ispirò Lewis Carroll e il gatto che prende in giro Alice...
Quest'idea, comunque, in cui la coscienza è basata non su fenomeni algoritmici bensì su «sottili effetti quantistici» (e che espose per la prima volta nel libro La mente nuova dell'imperatore, nel 1989), ha radici lontane: «Quando ero studente di Matematica pura a Cambridge seguivo anche altre lezioni, come Logica matematica, che comprendeva Teoria delle macchine, cioè i computer. Mi intrigava soprattutto la teoria di Gödel: sembra suggerire che ci siano cose in matematica che non possono essere provate. Fastidioso... E io ero felice di sentirlo». Che cosa ha a che vedere questo con l'intelligenza artificiale? «Tu inserisci le regole in un computer, e lui ti dice se sono applicate bene oppure no. L'affermazione finale è vera, se credi che quelle regole siano vere. Quindi la fiducia nelle regole trascende le regole stesse. Lo trovo affascinante. Significa che la nostra comprensione in matematica non è confinata da quell'insieme di regole: e da nessuno, per me. E la matematica è solo un caso particolare del pensiero umano, quindi questa considerazione vale per tutta la comprensione umana: c'è dell'altro». Molti non sono d'accordo, ma questo succede, secondo Penrose, perché «è una convinzione quasi naturale che ogni azione del mondo fisico possa essere assimilata computazionalmente. Cioè che le leggi della fisica possano essere messe in un computer e valere allo stesso modo. E molti credono anche che, se non sei d'accordo, allora tu ritenga che ci sia qualcosa di magico, oltre il mondo fisico: ma non è il mio caso». L'incompatibilità è proprio nella fisica: «Il computer opera sul discreto - come i numeri, uno, due, tre - mentre la fisica riguarda il continuo - come una fotografia. È questo il problema. Qualunque cosa faccia la mente cosciente, non è qualcosa che possa essere messa in un computer: essa agisce in modo diverso da quello computazionale».
Anziché guardare al punto di contatto, Penrose torna al suo vecchio amico Gödel: «Io dico che bisogna cercare, invece, la lacuna: il punto in cui le leggi della fisica sfuggono alla computazione». Racconta Penrose che un altro corso che frequentava a Cambridge era Meccanica quantistica, e il professore era il Nobel Paul Dirac (cioè uno degli scienziati che l'ha elaborata): «Mi fu subito chiaro che c'era qualcosa che mancava. Non che lui vi ponesse troppo l'accento, anzi. Però lui stesso, anni dopo, lo ammise: la meccanica quantistica non è l'ultima parola. C'è qualcos'altro, che ci sfugge». E non è solo questione di gatti, non di Alice, ma di Schrödinger: quelli vivi e morti allo stesso tempo, un'assurdità, che indica che «c'è qualcosa di sbagliato» nella meccanica quantistica. «Molti dicono che, quando l'osservatore è nel sistema, cambia le regole. E che questo abbia a che fare con la coscienza. Per me non è così. Il collasso della funzione d'onda non è causato dalla coscienza: è l'opposto. La coscienza dipende proprio da quella fisica sconosciuta, che è coinvolta nel collasso della funzione d'onda. Per questo dicono che sbaglio tutto...».
Penrose era anche molto amico di Stephen Hawking (con il quale fra l'altro ha scritto La natura dello spazio e del tempo, Bur, 2017). «Dobbiamo parlare delle singolarità. La singolarità c'è nel momento in cui il modello si dimostra sbagliato: per esempio, quando una nube di gas collassa e produce un buco nero e, nel mezzo di esso, la densità diventa infinita, lo spazio tempo diventa infinito, le equazioni non funzionano. Nel 1964 ho provato che questo teorema funziona anche in condizioni molto generalizzate. Insomma la singolarità è inerente al sistema. Nel film La teoria del tutto parlo di questo teorema in una conferenza: però devo dire che il conferenziere non mi assomiglia e che Stephen non era in quell'aula. Mi ascoltò a Cambridge. Discutemmo un po' e lui capì subito gli argomenti utilizzati e li applicò a tutto l'universo: la singolarità c'è anche in cosmologia, il Big Bang per esempio è una singolarità. E riuscì anche, in seguito, ad applicare il teorema al Big Bang, pur non direttamente. Questo avveniva negli anni Sessanta. Poi siamo rimasti amici, ma le nostre visioni hanno cominciato a divergere sulla meccanica quantistica: lui era più resistente a cambiare la teoria, mentre per me deve essere cambiata».
Il fatto è che Penrose ha una certa propensione a interessarsi alle cose quando non funzionano: «È vero. Amo esplorare i paradossi. Quei punti in cui le cose sembrano deragliare: e cercare di capire se davvero sono sbagliate, perché, e che cosa è successo. Non è che mi piaccia fare quello controcorrente, anzi: è che voglio capire le cose, quando la fisica attuale non ci dà risposte sensate». E la risposta delle risposte, la tanto inseguita teoria del tutto? Penrose sorride. «Per la maggior parte delle persone significa: le teorie attuali, un po' modificate. Per esempio, una teoria della supergravità - che non starò a spiegare... Ma per me è ridicolo. Forse capiremo, anzi di sicuro capiremo la fisica in modo migliore, ma non so se arriveremo a capirla completamente. E una teoria del tutto, se ci sarà, sarà molto diversa; in ogni caso non siamo per nulla vicini a essa. Anche perché le teorie attuali non tengono in considerazione la cosa per me più importante: che la meccanica quantistica non è incompleta, è incoerente. E va sostituita. Perciò, se cerchi di farla andare d'accordo con la gravità, sbagli». Anche per quanto riguarda il nostro cervello, che pure implica effetti quantistici «perché utilizza la chimica», non bisogna fermarsi lì: «Non dico solo che serva la meccanica quantistica, dico che bisogna andare oltre».
Del resto Penrose è abituato a non farsi confinare: da giovane studente, ispirato da una mostra di Escher, si inventò il tribar (poi noto come «triangolo di Penrose») e, con suo padre, disegnatore di palazzi e scale impossibili, scrisse un articolo sul disegnatore olandese. Il quale vide i loro disegni, e a sua volta si ispirò a essi per le sue celebri scale impossibili, ringraziandoli. «Fu generoso da parte sua: non molti altri l'avrebbero fatto».
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