Maestri, mitomani e miti I giornalisti visti da Feltri

Il direttore racconta l'età dell'oro dei quotidiani. Con storie micidiali su Afeltra, Montale e altri...

Maestri, mitomani e miti I giornalisti visti da Feltri

A Vittorio Feltri, in fondo, al netto degli affetti (soprattutto per i cavalli, e i gatti), interessano due cose. Gli abiti eleganti e la scrittura. In entrambi i casi è questione di stile.

Uomo di stile e giornalista di razza, Feltri ha posto alla sua classe un solo limite, anche se forse in effetti è una risorsa. L'individualismo. Quando saluta un collega quasi sempre gli si rivolge con un «Maestro», sapendo di gratificare il suo interlocutore, ma pensando in realtà a se stesso. Maestro: in quanti, in effetti, hanno scritto per così tanti giornali in Italia, e soprattutto li hanno diretti portandoli da uno stato di pre-morte a una splendida seconda vita? Segue elenco: L'Europeo, l'Indipendente, il Giornale, e poi c'è Libero.

Libero (ammette una giovinezza socialista, ma niente di più: le uniche idee che segue sono le proprie, e nemmeno sempre), irriverente (amico di tutti, rispetta solo il lettore e il pezzo che sta scrivendo in quel momento) e tenace (non si attraversa mezzo secolo di giornalismo a quei livelli soltanto con il talento), Vittorio Feltri non è uomo facile. Dice quello che pensa, si annoia in fretta di tutto, ha un cinismo suo proprio. Ma come giornalista che ha salito tutti i gradini del mestiere (estensore, redattore, cronista, inviato, direttore...), c'è poco da dire. Anzi, tantissimo.

Così tanto che ci si potrebbe scrivere un libro. Quello che ha appena fatto. Eccolo qui: Vittorio Feltri, Il borghese. La mia vita e i miei incontri da cronista spettinato (Mondadori). Abbiamo giusto citato le testate che ha risuscitato, o lanciato. Qui dentro - in un libro che un po' è autobiografia, un po' un manuale di scrittura, un po' storia del giornalismo italiano - troverete i dettagli. Soprattutto troverete tante considerazioni sul mondo dell'informazione (di ieri e di oggi), parecchi aneddoti (Feltri sa bene come insaporire le pagine) e molti profili di colleghi emeriti (a volte anche un po' str**zi). Dai primi pezzi importanti alla Notte e poi al Corriere della sera (quando «le paghe dei giornalisti erano cospicue: con meno di due buste paga potevi acquistare una 500» e ancora non c'era Wikipedia ma si trovava un redattore soprannominato Garzanti «in quanto bastava dargli una data o una parola per azionarlo come fosse un'enciclopedia umana») fino a oggi, in cui non ci sono mai stati tanti giovani che vogliono lavorare nei giornali e tanto pochi che li leggono.

Bei tempi quando c'erano... Già, chi c'era quando Vittorio Feltri cominciò a bazzicare le redazioni, e poi a dirigerle?

Eugenio Montale, ad esempio. Che fu poeta premio Nobel, certo. Ma anche firma nobile del Corriere delle sera. Erano gli anni Settanta, Feltri era al Corriere d'Informazione, e la prima volta che incrociò «quest'omino grassoccio e buffo» fu nelle sontuose e marmoree toilette di via Solferino. «Il bagno è come il cimitero, una livella, e lì siamo tutti uguali». I due si trovarono simpatici. Per il resto Montale (trasandando nel vestire, fumatore micidiale, «tipo bizzarro, ingegnoso, particolare») aveva due caratteristiche. La prima era una voce tonante, e spesso si improvvisava baritono infischiandosene di chi stava lavorando. La seconda una certa alterigia, ma educata: non faceva distinzione alcuna fra l'ultimo arrivato e la grande firma. Li reputava tutti degli imbecilli.

Poi Enzo Biagi. Il ritratto che ne fa Feltri è l'esempio perfetto, e più alto, di come si possa scrivere benissimo di una persona, distruggendola. Una cosa - difficilissima - che sanno fare solo i giornalisti più grandi. Mi viene in mente Montanelli, poi Mario Cervi. E Feltri, appunto. Sono sette paginette: godetevele. Biagi era un «eccelso scrittore», «lo definirei un impressionista», «molto affascinate», «in quanto non approfondiva mai i concetti, ne dava una pennellata». Insomma, avete capito: prima si liscia il soggetto, poi lo si stronca. Sempre con stile. Esempio: «Enzo è stato per me un maestro». «Mi affascinava la sua capacità di farsi pagare bene». Oppure: «Provavo per Enzo una grande ammirazione». «Era un egoista notevole, pensava solo a se stesso, lui era il sole noi i satelliti». Detto questo, «Biagi mangiava come un assassino di pasta asciutta», diventò giornalista giovanissimo al Resto del Carlino ma guai a ricordargli «che prendeva compensi anche dal regime fascista», era molto bravo a scoprire talenti e il suo modo di fare interviste in televisione era semplice e riscuoteva successo. «Sembrava un parroco».

A proposito di Montanelli. Il capitolo su Indro è da leggere. Dentro ci sono tutti i vizi e vezzi del grande toscano, e in controluce anche quelli del giovane orobico. I due sono stati così tanto amici e così tanto nemici perché in fondo sono identici. Se non nella personalità, nella stoffa. Poi, restano gli insegnamenti. «Caro Vittorio - ricorda Feltri che gli diceva Indro - quando fai un giornale, devi sempre tenere presente che alla gente non interessano gli spiccioli della politica, per cui devi fare due articoli di fondo alternati, di cui uno contro un personaggio politico importante, e il titolo deve essere Testa di cazzo. Se invece fai un pezzo sull'Italia, il titolo deve essere Paese di merda. Questa è la tecnica migliore». Che, a pensarci bene, è un'analisi strepitosa. Poi, di suo, l'immaginifico Gaetano Afeltra aggiungeva: «Vittorio, ricordati sempre la regola delle quattro s: soldi, salute, sesso e sangue. E infine uno schizzo di merda qua e uno là» (ecco, forse - mi sia concessa una nota a margine - ultimamente si è un po' esagerato con le dosi).

Comunque, Feltri li ha conosciuti tutti. Da Nino Nutrizio (andate a leggere come andò il primo incontro...) a Beppe Severgnini («Montanelli se lo portò alla Voce, «sebbene di lui mi dicesse Beppe è soltanto cipria»). Ma qui ormai è rimasto spazio solo per ricordarne altri due. Giorgio Bocca (quello a cui si intuisce Feltri volle più bene, il suo «miglior nemico», «scrittura torrentizia», «duro e crudo», che non sopportava che venisse rivangato il suo passato, che viveva come marchio ignominioso. «Non si accorgeva che era rimasto fascista, e lo rimase per tutta la sua esistenza. Bocca era fascista nel temperamento, quantunque non più nei principi»).

E naturalmente Oriana Fallaci. L'amica, la collega, la maestra, «la perfezionista ossessiva»... Ma per raccontare la loro storia, non basta un articolo di giornale. Ci vorrebbe un capitolo intero. E solo Feltri lo può scrivere. È il quarto.

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