Cultura e Spettacoli

Il maestro regala all'opera una suprema concertazione. E convince tutti

«Mi convinco sempre di più che la vastità della Scala nuocerebbe all'effetto. Scrivendo Falstaff non ho pensato né a teatri, né a cantanti. Ho scritto per piacer mio, e per conto mio, e credo che invece che alla Scala bisognerebbe rappresentarlo a Santa Agata». Giuseppe Verdi così scriveva al suo editore Giulio Ricordi due anni avanti la prima rappresentazione del suo ultimo capolavoro. Dopo aver ascoltato molte volte il testamento verdiano al Teatro alla Scala, soprattutto nella messa in scena di Giorgio Strehler (scene di Ezio Frigerio) - spettacolo che fu poi per anni uno dei maggiori e non dimenticati successi scaligeri di Riccardo Muti - pensavo che quanto Verdi scrisse a Ricordi fosse dettato dalla burbera misantropia del compositore, dal suo profondo disincanto verso i vizi dei cosiddetti grandi teatri. E invece no. Il Vegliardo aveva profondamente ragione. Nelle dimensioni assai più piccole del Teatro Alighieri di Ravenna, dove Riccardo Muti ha guidato un'agilissima versione, Falstaff acquisisce le proporzioni a cui aveva pensato l'autore.

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La leggerezza e la chiarezza con cui la compagnia di canto e l'orchestra hanno pronunciato anche i più complessi giochi verbali come il Cicaleccio del primo atto, hanno avvicinato l'opera di Verdi a Mozart, soprattutto a quello delle Nozze di Figaro . Un fatto inedito, merito della superba concertazione del maestro Muti, tutta misurata sul rapporto parola/musica. L'impostazione registica di Cristina Mazzavillani, ha optato, invece delle scene «tradizionali», per proiezioni dei fatati luoghi di Villa Verdi a Sant'Agata, chiudendo perfettamente il cerchio di questo Falstaff all'insegna dell'intimità.

Su questo impianto Alessandro Lai ha ideato eleganti costumi che s'inscrivevano nel segno burlesco di Shakespeare. Anche nei costumi si riconosceva la grande linea «italiana» del teatro in musica. Non si pensi a rimostranze nazionalistiche o peggio nostalgiche, ma al doveroso memento di un «metodo» di lavoro e di un gusto che per secoli hanno lasciato un solco determinante nella storia interpretativa. Con l'alto obiettivo di mantenere viva questa tradizione esecutiva, il maestro Muti ha lavorato a questo Falstaff con un gruppo di giovani direttori d'orchestra e maestri sostituti al pianoforte (denominato Italian Opera Academy). Muti ha ribadito, presentando il concerto dei quattro premiati (in ordine di nostro gradimento: la nippo-tedesca Erina Yashima, il pugliese Vincenzo Milletarì, il cinese di Taiwan, Su-Han Yang e il bielorusso Vladimir Ovodok), che per far bene l'opera italiana bisogna sempre partire dalle prove, dal duro lavoro con i cantanti, parola per parola, nota per nota.

Un modo per porre un freno a una deriva «culturale» preoccupante e a un atteggiamento irritante nei confronti della musica italiana: quello che ha consentito recentemente in un nostro «gran» teatro a una blasonata orchestra straniera di eseguire solo il galop finale della sinfonia del Guglielmo Tell . Cosa accadrebbe in Germania se si tagliasse così la Leonora III di Beethoven?

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