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«Mai pentito di aver aderito a Salò»

Rimase in prigione per quasi due anni dopo la guerra

«Mai pentito di aver aderito a Salò»

«Di che cosa dovrei pentirmi? Non amo il pentimento, un sentimento cattolico che disprezzo». Così dieci anni fa nel volume di interviste I grandi vecchi (Mondadori), Giorgio Albertazzi rispondeva ad Aldo Cazzullo a proposito della sua appartenenza fascista e poi della sua scelta a favore della Repubblica Sociale, scelta condivisa con molti personaggi dello spettacolo, compreso Dario Fo. «Un uomo è ciò che ha fatto, ma anche ciò che pensa. Io avevo 18 anni, tiravo di boxe, ero forte e veloce. Partigiani in giro non ce n'erano, e devo dire che non ne ho mai visti, se non nella primavera del '45». Non si è mai pentito, di quella ormai antica appartenenza, Albertazzi, nemmeno in una delle molte, provocatorie, indagatrici interviste che sono seguite negli anni a quella scelta, dopo che quel diciottenne era diventato un attore di straordinario successo e talento. Non ha mai però ammesso ciò di cui alcuni documenti parevano accusarlo: ovvero di aver fatto parte, se non addirittura di aver comandato, da repubblichino, un plotone di esecuzione.

Per il sottotenente Giorgio Albertazzi infatti, era ancora lontano il debutto del 1949 nel Troilo e Cressida diretto da Luchino Visconti al Maggio Fiorentino. Sicché, quando i partigiani apparvero, lui non esitò a sparare: così raccontò un diario della Legione Tagliamento, due pagine dattiloscritte ritrovate tra le carte di un processo intentato dal Tribunale di Milano a 13 legionari dopo la liberazione. Insieme al sottotenente Prezioso e al comandante tenente Giorgio Pucci, Terza Compagnia, 63°, battaglione M., Albertazzi, sempre secondo i documenti, si impegnò a guidare, nel settembre del 1944, il grande rastrellamento sul Grappa, denominato «operazione Piave». Se ne sapeva poco o nulla, di quell'azione ma soprattutto del ruolo dell'attore quando, proprio nel 2006, il settimanale Micromega, anticipato da un estratto clamoroso sul Corriere della Sera, pubblicò il Diario.

Sebbene potesse fare appello a ragioni familiari per la sua adesione a Salò di suo zio Alfio, fascista, fu picchiato a morte dopo la caduta di Mussolini dichiarò sempre di essere stato spinto da «istinto anarchico», lo stesso che molti anni dopo lo indirizzò a sinistra: «Andai a Salò da ribelle... Scelsi non coloro che si erano già arresi, che disprezzavo, bensì la causa perduta contro il conformismo piccolo borghese, che già si preparava ad acquattarsi nelle pieghe della Resistenza... Forse non dovrei dirlo non sta bene! ma io i partigiani li ho sempre visti scappare, le poche volte che li ho visti».

Così aveva scritto in un passo della sua autobiografia, Un perdente di successo (Rizzoli), alla quale fece seguito lo sdegno di Sestino, il paese in provincia di Arezzo che lo accusava, ancora nel 1989, di aver aperto il fuoco contro Ferruccio Manini, disertore di Salò fucilato a luglio del 1944. E nella festa del mezzo secolo post-liberazione non esitò a definirsi, in una intervista a Repubblica, fascista, se fascista sta per colui che «ama il proprio paese, ne difende i confini, è coraggioso».

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