"Per me Oscar Wilde è come Gesù Cristo: ha sacrificato se stesso"

L'attore è regista e interprete di "The Happy Prince" sulla parte finale della vita del poeta

"Per me Oscar Wilde è come Gesù Cristo: ha sacrificato se stesso"

Sorpresa: Rupert Everett, 58enne attore e scrittore inglese che negli Ottanta ha attirato l'attenzione lavorando con Francesco Rosi (Cronaca di una morte annunciata) e accanto a Colin Firth ne La scelta, torna sulla scena. Dopo qualche anno un po' più defilato. In attesa di rivederlo in tv, nella serie Il nome della rosa, dal libro di Umberto Eco e dove farà l'inquisitore, eccolo a Roma per lanciare il suo primo film da regista The Happy Prince. L'ultimo ritratto di Oscar Wilde (da domani in sala), anche scritto e interpretato da lui. Brizzolato, ingrassato, sicuro di sé e snob come ogni aristocratico (discende dalla famiglia reale di Carlo II Stuart), l'aspettano al varco come una star: ieri, alla Casa del Cinema, Monica Cirinnà, circondata da amici, non si è fatta mancare l'anteprima di questo denso sogno narrativo su Wilde. Ambientato tra il 1897, quando lo scrittore fu imprigionato a Reading per la sua omosessualità, e il 1900, anno in cui egli morì di meningite, questo film in costume ha nel cast Colin Firth, starring il suo più caro amico Reggie ed Emily Watson, nella parte della moglie Constance. Al suo esordio, non è male Rupert regista, mentre ritrae sia un eroe che rifiutava i limiti del suo tempo sia un folle che tendeva all'autodistruzione. Ed è bravo nel ruolo della sua carriera, mentre litiga con la carta da parati della sua misera stanza parigina («qualcuno dei due deve andarsene»), coglie «il momento purpureo» con un soldatino, o gode l'incanto di Partenope.

Quanto è autobiografico questo suo biopic su Oscar Wilde?

«Per essere gay ho dovuto negoziare molto. Quando lavori nell'ambiente del cinema, qualche tempo fa aggressivamente eterosessuale, devi negoziare e ti scontri con un mucchio di divieti. Oggi non è più così, ma tra gli Ottanta e i Novanta non era facile. A Londra è diventato legale essere gay soltanto nel 1968. Oscar Wilde è il mio Gesù Cristo».

Nel suo film accosta la figura del Cristo martire a quella del poeta crocifisso per la sua sessualità...

«Ho avuto qualche flirt con la Chiesa cattolica e ho colto l'opportunità di far vedere che, come Cristo ha sacrificato se stesso, così Wilde ha perseguito la sua idea di amore, sacrificandole tutto: carriera, moglie, i due figli, la sicurezza economica, la celebrità. Sono stato cresciuto ed educato in seno alla Chiesa cattolica e nel mio film c'è un uomo che viene distrutto perché omosessuale».

Come si è preparato al ruolo del protagonista?

«Ho letto tutto quel che ha scritto Oscar Wilde, comprese le lettere che scriveva quotidianamente. Wilde descriveva tutto con minuzia. Ho lavorato a questo progetto per dieci anni: tanto c'è voluto per trovare i soldi. Prima avevo più successo. Ma quando ho deciso di girare il film, ne avevo di meno. Nel film ho messo tutto me stesso».

In alcune scene si avverte l'influenza di Luchino Visconti: quale rapporto ha col cinema italiano?

«Volevo che il film fosse un mix tra Visconti, la tv a circuito chiuso e Zeffirelli, che mi ha influenzato con Romeo e Giulietta e Fratello Sole, Sorella Luna. Mi sono ispirato a Morte a Venezia, uno dei miei film preferiti. Volevo qualcosa che avesse lo stile della camera a spalla: amo i film dei fratelli Dardenne, che usano il trucchetto di far guardare il personaggio nella macchina da presa e poi la macchina da presa segue il personaggio. Adoro la Belle Epoque e la letteratura romantica. Miravo a un risultato tenebroso, che somigliasse alla letteratura romantico-vagabonda di Verlaine. Mi sono avvalso di costumisti italiani, i migliori, e anche per il trucco&parrucco ho scelto artisti italiani».

Per lei, Oscar Wilde è apripista

del movimento Lgbt?

«In un certo senso, sì. Anche oggi un uomo può essere distrutto perché ama: avviene in Russia, in Giamaica, in India, in Cina. Anche in Italia: mi preoccupa l'atteggiamento omofobo della Lega».

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