"Il mio inno al matrimonio: un film che dura da 50 anni"

Il regista Pupi Avati racconta la serie (sua prima vera regia tv) incentrata sulla vita di una coppia dai 20 ai 70 anni. Praticamente la sua...

"Il mio inno al matrimonio: un film che dura da 50 anni"

Un fenomeno curioso. Ma indicativo. «Ogni volta che dichiaro in pubblico d'essere sposato da 49 anni, dalla platea parte un applauso colossale. Quasi una standing ovation». Pupi Avati ride. L'essere da mezzo secolo convinto fruitore d'un istituto quasi fuori moda («Peggio: controcorrente») come il matrimonio, non lo fa sentire una sorta d'animale in via d'estinzione. Anzi. «Quelli che si entusiasmano non sono colleghi di nozze d'oro. Sono quelli che hanno mollato dopo sei o sette anni, al massimo. E che in me ammirano, con incredula stupefazione, il campione di pentathlon coniugale; l'eroe di tutte le discipline nuziali».

E magari anche il regista di «Un matrimonio»: la fiction in sei puntate per Raiuno con cui, dopo trent'anni, in autunno Pupi Avati torna in tv...
«E con cui celebro i due mestieri più difficili che esistano. Quello di regista e di marito. Il matrimonio che racconto, è infatti il mio; ma anche, in qualche modo, quello di tutti coloro la cui vita a due s'è intrecciata a quella del nostro Paese. In primo piano due sposi - Flavio Parenti, democristiano, Micaela Ramazzotti, comunista - raccontati dal 1948 al 2005: gli amici, i figli, i nipoti, gli affanni, le consolazioni. E poi cinquant'anni d'Italia - il dopoguerra, il boom economico, il terrorismo - ma sempre come sullo sfondo. Un mattino d'estate del 1980 Francesca (la Ramazzotti) passa per via Irnerio a Bologna, e sente uno boato lontano. Pensa all'esplosione d'una caldaia. E invece è la bomba che ha appena distrutto la stazione».

Un grande, attesissimo ritorno in tv. Ma, in fondo, con un film lungo 600 minuti.
«Che mi ha concesso, come mai prima in 45 anni di carriera, di fondere vita a lavoro. Di veder vivere i miei personaggi per l'arco di un'esistenza intera, dai 20 ai 70 anni, con una quotidiana, appassionata intensità. E di riunire alcuni dei miei attori più cari - Christian De Sica, Andrea Roncato, Katia Ricciarelli - assieme ad altri 259, per un grande, ininterrotto romanzo di vita reale. Un'esperienza assolutamente unica».

Con, al centro, un'esperienza non meno unica: il matrimonio.
«Se penso alla magnifica incoscienza con cui mezzo secolo fa, trepidi giovinetti inconsapevoli, io e Carla ci inebriammo nel donarci l'uno all'altra, senza la minima idea di ciò che questo avrebbe significato, ancora sbalordisco. Abbiamo condiviso tutto. Anche la separazione. Già: perché io sono anche andato via di casa, a un certo punto. Ma poi ho trovato il coraggio di tornare. Ecco: il coraggio di tornare, di ricominciare da capo, per uscire rafforzati dall'errore, piuttosto che indeboliti, è uno dei temi centrali di Un matrimonio».

E ora, dopo sei mesi di riprese (e 49 anni di vita di coppia) qual è il senso ultimo di «Un matrimonio»?
«Senza tema d'apparire letterario o demagogico, dico che dopo cinquant'anni tu diventi per lei, e lei per te, la cassaforte del tuo stesso essere. Il computer del tuo io più intimo, di cui solo tu e lei avete la password. Nessun altro è parte di te come lei; nemmeno i figli. E questo è impagabile. È il risultato di una vita».

Come mai la famiglia, rigettata dalla cultura attuale, raccontata in tv riscuote infallibilmente il successo?
«Ma perché la famiglia fa parte del nostro DNA! Nonostante oggi si cerchi di distruggerla in tutti i modi. Compreso l'ultimo, il più indecente: quello di far adottare dei bambini alle coppie omosessuali. Mi auguro di non incrociare mai lo sguardo di uno di quei bambini. Spero di morire prima.

Qualsiasi bambino ha il sacrosanto diritto d'avere un padre e una madre: cioè di due differenze che si completino fra loro. Per quanto ottime persone, due omosessuali questo non potranno mai offrirglielo. L'idea di privare una creatura di un diritto così ovvio, così elementare, così essenziale, è semplicemente insopportabile».

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