Luca Beatrice
I l ventennio, seppur non tondo, che parte dal 1963 e arriva al 1983, rappresenta un'epoca in cui il mondo della cultura cambia profondamente, assorbendo le mutazioni della società e della politica. Pop, minimalismo, concettuale, fotografia, ritorno della pittura: tutto quanto noi ancora oggi riteniamo rilevante nelle arti visive sembra essere accaduto allora. Per non parlare della musica, un'esplosione grazie alla quale, ancora, viviamo di rendita.
Uno dei motori principali di questa rivoluzione ha avuto a che fare con l'impegno: conquista dei diritti civili, lotta contro il razzismo, femminismo hanno condizionato le forme estetiche. Tra le diverse nazioni occidentali che tentano di rovesciare le carte in tavola, una in particolare merita di essere studiata e approfondita perché non riguarda solo i suoi confini politico-geografici, ma un'identità più globale ed estesa: l'America e la spinta decisiva della comunità nera dopo secoli in cui parlare di ghetto non era certo stato improprio.
Si intitola, infatti, The Soul of a Nation: Art in the Age of Black Power la mostra alla Tate Modern di Londra, da visitare entro il 22 ottobre.
Procediamo con ordine. All'inizio degli anni '60, il mercato è ancora troppo elitario e, per contro, è troppo naif la proposta di pittori e scultori che, non essendo inseriti nel sistema, sostengono l'importanza del messaggio a discapito della forma. Ciò non toglie che quanto sia stato prodotto nell'ambito della cultura nera, soprattutto negli anni '60, non possa rappresentare una testimonianza sulla spinta alla rivolta e allora calza bene il termine di arte politica, mai come in questo caso necessaria.
Rispetto all'arte, in quel periodo altri linguaggi corrono più rapidi: la musica soul con Aretha Franklyn e quella rock con Jimi Hendrix - bellissimo Revolutionary, il ritratto psichedelico realizzato in suo onore dal pittore Wadsworth Jarrell nel '72; la letteratura con Toni Morrison; lo sport, il pugilato in particolare, che identifica in Muhammad Alì la vera e propria icona, al punto che Andy Warhol gli dedica diverse opere trasformandolo in simbolo come Marilyn ed Elvis. Dell'arte nera, invece, si conosce meno, almeno fino a quando Jean-Michel Basquiat diventerà la prima artistar black, ma a quel punto saremo già negli anni '80. Con il precedente di David Hammons, non tanto negli esordi vagamente pop, quanto nei lavori realizzati con scarti, capelli, mozziconi di sigaretta in un periodo in cui viveva ai margini, come un barbone, mentre ora è uno degli artisti più ricercati e costosi, con opere che sfiorano il milione di dollari.
Tornando alle origini, alcuni episodi hanno segnato i capitoli di questa nuova cultura che ha rifondato l'anima di una nazione. Nel '63 a New York nasce lo Spiral Group, collettivo indipendente di artisti i cui nomi più noti sono Ronnie Bearden e Norman Lewis: non avendo soldi, lavorano su materiali poveri e questa precarietà diverrà presto un'estetica, con i collage oppure intervenendo clandestinamente sui muri delle città. Wall of Respect a Chicago e Smokehouse ad Harlem si rivelano un mix tra la denuncia sociale e l'anticipo, netto, della Graffiti Art. I fratelli neri riconoscono in questi lavori i personaggi simbolo del Black Power, i leader politici Malcom X e Angela Davis. Alla fine dei '60 a Chicago si forma un movimento ancora più aspro e senza compromessi, l'afriCOBRA, con relativo manifesto, dove risulta molto interessante la presenza di artiste donne nere e femministe e gli artisti che cominciano a usare la fotografia, così da togliersi di dosso quello stile troppo popolare che condiziona la pittura.
Non è un caso che, accanto al ricco catalogo - stessa copertina, il quadro di Barkley L. Hendrix, Icon for My Man Superman (1969) - Soul of a Nation sia anche una raccolta musicale in vinile e cd di tredici brani, commistione tra jazz, funk e gli albori del rap. In pratica è già stato inventato tutto ciò che oggi rende la musica nera l'unica ancora in grado di farci provare brividi. Che si tratti di Gil Scott-Heron, poeta militante, pioniere del jazz-funk, di Don Cherry, già trombettista di Ornette Coleman e studioso delle radici, del sax di Joe Henderson, siamo comunque in presenza di musica radicale che ogni tanto riesce a incuriosire il mondo pop. Avamposto di una stagione, la nostra, di autentici giganti, a cominciare dall'immenso sassofonista Kamasi Washington, dallo stile indefinibile tanto da risultare più amato nel mondo del rock che in quello del jazz: da quando, nel 2015, si autoproduce l'album triplo The Epic, dopo decine di collaborazioni, diviene un punto fondamentale nel suono contemporaneo.
Per non dire di Kendrick Lamar, ovvero quando il rap si sottrae alla banalità per diventare muro di suoni sperimentali; oppure di Flying Lotus, pronipote di Alice Coltrane, cioè l'incontro tra jazz, rap ed elettronica.Messi sul piatto si possono alternare i primordi degli anni '60 alle ricerche del nuovo millennio. Se c'è anima non si sente la differenza.
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