"Nel jazz risuona la voce di Dio"

A 84 anni il sassofonista Sonny Rollins incide un cd e prepara una tournée: "Mi isolavo per trovare me stesso e cercare la musica perfetta"

"Nel jazz risuona  la voce di Dio"

Nei primi anni '50 Sonny Rollins suona con Miles Davis, Thelonius Monk, col Modern Jazz Quartet e compone temi entrati nella storia come Oleo, Airegin, Doxy... Nel 2006 viene premiato con un Grammy per il «miglior album jazz strumentale» e oggi, a 84 anni incide il terzo volume dei Road Shows, dischi con cui ha aperto i suoi archivi per documentare la sua opera più recente. È Sonny Rollins, re dei tenorsassofonisti, partito dall'hard bop per distinguersi come uno dei più grandi e longevi innovatori nella storia del jazz.

Lei è la memoria storica del jazz.
«Penso molto al passato ma non con nostalgia, ci penso perché mi è utile per guardare al futuro. Non bisogna mai dimenticare quello che si è fatto e da dove si viene».

Lo specchio di questa filosofia è il suo nuovo album Road Shows Vol.3.
«Nel mio percorso artistico ho spesso preso pause di riflessione, ma quando ho del materiale di qualità tengo a condividerlo con il mio pubblico. Dagli anni Novanta ad oggi penso di aver raccolto molte buone cose, come il concerto per i miei 80 anni nel Volume 2 o le registrazioni dal vivo in varie parti del mondo, del periodo 2001-2012, raccolte nel nuovo cd».

Ci sarà un altro Road Show?
«Sicuramente sì ma più avanti. Prima inciderò un album in studio di nuove composizioni: sto già lavorando».

L'anno scorso smise di suonare dal vivo per problemi respiratori: ora come si sente?
«Bene, molto meglio, infatti sto già suonando nei club. L'anno prossimo riprendo le tournée e tornerò a suonare in Italia per recuperare il concerto mancato lo scorso anno».

Hanno fatto sensazione i suoi ritiri dal mondo del jazz: come quella volta, nel '59, che si rifugiò a suonare sotto il ponte di Williamsburg, in piena New York.
«Ancora oggi sto imparando e in generale non sono mai soddisfatto del mio lavoro; cerco la perfezione. Dicono sia un mio limite, per me è un pregio, non bisogna mai accontentarsi. Il mio obiettivo numero uno è quello di suonare per fare esperienza, esperienza e ancora esperienza; insomma devo allenarmi. All'epoca lo facevo in casa disturbando tutto il quartiere. Così scelsi quell'angolo del ponte di Williamsburg dove non passava quasi nessuno. Lì potevo esercitarmi liberamente e rendere conto solo a me stesso. Molte volte mi è capitato di farlo, per esempio isolandomi in California guardando l'Oceano. Ci furono anche altri ritiri giovanili; una volta abbandonai del tutto la musica ma perché volevo allontanarmi dal mondo della droga, erano i tempi in cui frequentavo Charlie Parker».

E il rientro dopo il ponte come fu?
«Tornai dopo due anni in un locale del Greenwich Village e la Rca mi offrì un bel po' di soldi per un contratto discografico. Ero tornato completamente ritemprato».

I musicisti che l'hanno più ispirata?
«L'elenco è lungo perché prima di tutto mi sono innamorato del rhythm and blues. Louis Jordan e i suoi Timpany Five emanavano un'energia e un'ironia incredibili, sono stati i miei primi eroi. Avevo tutti i loro dischi e volevo essere come loro. Poi è arrivato Charlie Parker che aveva un approccio completamente diverso sia al jazz che al sax tenore e la stessa cosa fece Miles Davis con la tromba. Credo comunque di aver sempre cercato una mia strada autonoma guardando al nuovo stile di Parker, e a un incrocio tra quello duro di Coleman Hawkins e il lirismo di Lester Young. Senza dimenticare il blues, quello rurale, solo voce e chitarra, soprattutto di Tommy McClennan. Ma il jazz non è solo questo».

Cos'è?
«Cerco la perfezione ma non solo quella tecnica, ricerco il mio background così il jazz diventa un messaggio spirituale; quando suono o scrivo non mi domando da dove viene la musica, mi concentro sull'aspetto spirituale, sulla ricerca di Dio. Non dimentichiamo che alle nostre radici c'è lo spiritual; il jazz, più di ogni altra musica, deve nascere dalla ricchezza dell'anima».

E l'improvvisazione cos'è veramente?
«È la più alta forma d'arte. L'arte come dicevo ti avvicina a Dio e quindi l'improvvisazione ti avvicina a Dio, è qualcosa che ti entra nel profondo dove non sei tu che esegui la musica ma è la musica che ti guida».

Chi le manca di più tra i suoi colleghi famosi?
«Facendo nomi farei torto a qualcuno. Miles Davis è uno di quelli che conoscevo meglio.

Quand'era a New York veniva sempre a casa mia; ricordo quando mi disse “hey, vieni nel mio quintetto per suonare al Cafè Bohemia”. Anche Thelonius Monk con le sue follie mi manca, all'epoca eravamo giovanissimi; e Coltrane e Coleman che mi hanno fatto capire che l'improvvisazione non ha confini».

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