Non solo calcio, lo sport carta d'identità di una nazione

Lo sport è un qualcosa di intimo e in Italia non esiste solo la cultura del calcio

Non solo calcio, lo sport carta d'identità di una nazione

Potremmo leggere Scipione l'italiano di Franco Cordelli (postfazione di Andrea Di Consoli, Pellegrini editore, pagg. 144, euro 12,99) in due differenti modi: come un libro di filosofia; una filosofia tutta settecentesca, morale (più Shafterbury o Diderot per quanto di teatrale, ironico e discorsivo c'è in entrambi , che Rousseau troppo vanitosamente calcolato). O come uno studio sociologico (più Baudrillard che Bauman, come dire: più visionario che manieristico e reiterato), come qualcosa di meno rigido sul piano della logica e più naturalmente arbitrario nell'interpretazione. Ma esiste un terzo modo per decifrare questo libro che si ristampa dopo oltre vent'anni dalla sua prima comparsa. Leggerlo come un libro autobiografico («Mi piace scrivere di sport perché significa, per me, scrivere di me stesso»); o di una particolare autobiografia che coincide con un sentimento collettivo: un'autobiografia nazionale («Lo sport è uno dei pochi linguaggi che ci siano rimasti; e con la passione sportiva, cioè con il tifo, possiamo dirci qualcosa, ci riconosciamo a distanza»). E cosa c'è di più condivisibilmente intimo dello sport, per quanto di reale e al contempo metaforico vi è in esso specie in Italia, non solo l'Italia del calcio, ma quella del ciclismo (fin da Coppi e Bartali), del pugilato (Mitri, Benvenuti, Oliva), quella incollata alla tv per le Olimpiadi; l'Italia, insomma, legata al mito, a una stipula ancestrale che è pure un atto sociale?

Ha ragione Di Consoli, nella postfazione, a ricordare la tradizione novecentesca di scrittori prestati allo sport (Arpino, Gatto) e ad aggiungere che «nessuno come Cordelli lo ha fatto in maniera così poco mimetica, cronachistica e retorica, ma, anzi, caricando ogni pagina di inquietudini, suggestioni logiche e pensieri densi sul significato profondo dei circenses nell'epoca del popolo che è diventato pubblico».

Cordelli, interrogandosi sugli atleti, o semidei, di cui godiamo le gesta e l'eroica dedizione di chi mette in gioco la vita per la conquista dell'inutile, non smette di osservare il fenomeno dello spettatore, ma fuori da ogni moralismo: «Se lo sport e tutti i riti della società di massa sono un male, io godo di sprofondare in questo male, mi ci getto con voluttà».

Raccontare allora i mondiali del Messico nell'86 o il Tour de France dell'89, attraverso gli atleti e i suoi spettatori, significa fare i conti con ciò che di più profondo vive nella natura umana e che rivela pure l'antropologia di una nazione.

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