Il 27 marzo 1861, dieci giorni dopo la proclamazione del Regno d'Italia, Cavour pronunciò lo storico discorso «Libera Chiesa in libero Stato». Per completare l'unità, l'Italia doveva annettere lo Stato della Chiesa e Roma, e Cavour si rivolse al papa, Pio IX: «Santo Padre, il potere temporale per voi non è più garanzia d'indipendenza: rinunziate ad esso, e noi vi daremo quella libertà che avete invano chiesto da tre secoli a tutte le grandi Potenze cattoliche». Subito dopo il suo discorso la Camera proclamò - virtualmente - Roma capitale. Cavour morì dopo poche settimane e i governi successivi si limitarono a ridurre ulteriormente i privilegi legislativi di cui godeva il clero e a cercare accordi con Napoleone III, contrario a un ingrandimento italiano ai danni del papa.
La Chiesa intanto non riconosceva il Regno d'Italia (di conseguenza non lo riconoscevano neanche molte nazioni) e imponeva ai cattolici di non partecipare alla vita politica. L'8 dicembre 1864 Pio IX emanò l'enciclica Quanta cura, il cui succo è che la democrazia distrugge la giustizia e la ragione. All'enciclica era accluso l'elenco - passato alla storia come Sillabo - dei principali errori della nostra epoca (il 1864 è già anche la nostra epoca). Erano ottanta, fra cui il razionalismo, il socialismo, il liberalismo, il matrimonio civile, la teoria che la Chiesa non debba avere uno Stato. Era il tentativo di riportare la Chiesa e l'umanità a prima dell'illuminismo e della rivoluzione francese. Il parlamento rispose con una mitragliata di leggi: soppressione di ordini religiosi e incameramento dei loro beni, eliminazione della giurisdizione ecclesiastica sui cimiteri, servizio di leva anche per i seminaristi, obbligatorietà del matrimonio civile insieme, per chi volesse, a quello religioso.
Nel 1867 Garibaldi organizzò una spedizione militare verso Roma, nella speranza di far sollevare la popolazione. Sconfitto a Mentana dalle truppe francesi, fu esiliato a Caprera. Pio IX, invece, convocò per l'8 dicembre 1869 il Concilio Vaticano, che stabilì le regole alle quali la Chiesa si sarebbe uniformata per quasi cento anni, fino al Vaticano II di Giovanni XXIII. Il concilio ribadì l'incompatibilità della Chiesa con le dottrine moderne e il 18 luglio 1870 approvò il dogma sull'infallibilità del papa in materia religiosa e morale. Era una decisione di stampo medievale, e oggi è uno degli ostacoli principali alla riunificazione del cristianesimo in una sola Chiesa. Pio IX era tentato di promulgare anche il dogma del potere temporale, ma non fece in tempo, gli avvenimenti internazionali favorirono l'Italia: il giorno dopo scoppiò la guerra tra Prussia e Francia. Con la loro prima guerra-lampo i tedeschi occuparono Parigi, facendo prigioniero Napoleone III. I francesi proclamarono la repubblica e ritirarono le truppe da Roma. Ormai c'erano soltanto 15mila uomini, tra cui molti mercenari svizzeri, a difendere il papa.
Il 5 settembre il consiglio dei ministri decretò l'annessione dello Stato Pontificio, le truppe italiane varcarono il confine e procedettero lentamente verso Roma: si sperò fino all'ultimo che il papa ci ripensasse, anche perché i soldati venivano accolti in ogni paese come liberatori. Pio IX non ci ripensò ma il segretario di Stato Giacomo Antonelli fece in modo di evitare una vera guerra. La «battaglia di Porta Pia» del 20 settembre costò 49 morti agli italiani e 19 ai papalini. Il segretario di Stato Antonelli chiese al generale nemico di occupare anche la zona dei palazzi vaticani - che le clausole dell'armistizio lasciavano al papa - perché i romani minacciavano di attaccarli.
Roma fu conquistata e annessa al Regno d'Italia con una stravaganza che non ha precedenti e difficilmente avrà imitatori: si lasciò che in Vaticano continuasse a regnare il re sconfitto. Occorse affrontare ancora le reazioni di Pio IX, che si era rinchiuso nel suo palazzo, dove rimarrà fino alla morte e da dove nessun papa uscì più per sessant'anni. Fu Giovanni XXIII, un secolo dopo l'unità d'Italia, a riconoscere che fu una grande fortuna per la Chiesa avere perduto lo Stato: il Risorgimento, disse il papa buono, era stato «un disegno della Provvidenza» e «un motivo di esultanza» per la Chiesa come per lo Stato.
Nel 1870 i romani erano 230mila, di cui 50mila disoccupati la metà della popolazione attiva - e 30mila mendicanti. Figuratevi cosa può essere una popolazione composta per un terzo di sacerdoti, per un terzo di persone che lavorano poco e per un terzo di persone che non lavorano affatto, un Paese privo d'agricoltura, commercio e industria.
Le migliori menti della politica e della cultura italiana fra Settecento e Ottocento avevano in grande sospetto quella città che sentivano appartenere più alla Chiesa che all'Italia. Leopardi scrisse terribili lettere su Roma e i romani; Manzoni evitava addirittura di andarci, come Cavour; Vittorio Alfieri la definiva «d'ogni vizio il seggio»; D'Azeglio pensava che trasferire la capitale a Roma fosse una sciagura nazionale. Fra gli stranieri, James Joyce raffigura la città come un uomo che campa mostrando ai turisti il cadavere della nonna. Guido Piovene, cattolico e conservatore, individuò il male d'Italia «nell'annodarsi uno nell'altro di due animali ostili», che «ha ingigantito il danno che l'Italia subisce dalla presenza del papato».
La nuova capitale non aveva spirito nazionale, tradizione amministrativa e, soprattutto, classe dirigente. Esclusi gli abili componenti della curia, la classe dirigente era composta solo dalla pigra nobiltà papalina, una delle poche aristocrazie europee che da secoli non si batteva per la conquista o la difesa - civile o militare - di uno Stato. I nobili romani avevano sempre vissuto del latifondo appaltato ai cosiddetti mercanti (contadini arricchiti) che a loro volta diventeranno una borghesia greve e passiva.
Lo stato liberale giunse con un esercito di burocrati - male amalgamato e male organizzato - che fu rapidamente vinto e inglobato da quella borghesia che in città chiamano, con un termine che la definisce perfettamente, il generone. Quella borghesia era tenuta, per prosperare, a un'obbedienza cieca al Vaticano e non aveva mai avuto quegli slanci imprenditoriali, politici o intellettuali che, dal Trecento in poi, hanno fatto sviluppare le altre grandi città europee. Lo scopo del generone è impossessarsi delle leve del potere burocratico, trasmetterle ai figli e arricchirsi senza reinvestire. Anche l'ipertrofia e le abitudini della burocrazia statale affondano le loro radici nella Roma papalina. L'amministrazione pontificia aveva una quantità enorme di impiegati perché ogni nuovo pontefice doveva sistemare parenti, amici e clienti, senza inimicarsi quelli dei predecessori. Si creavano così nuovi incarichi, nuovi inutili uffici che - per gli stessi motivi - lo Stato italiano perpetua. La burocrazia statale e quella vaticana, i nobili e il generone trovarono un punto di incontro nella corruzione e nella speculazione edilizia.
Quanto al popolo, il Vaticano non aveva mai avuto la mano leggera. Se con una porgeva il pane, con l'altra teneva la forca, e disponeva di un sistema di polizia feroce, di una censura spietata. Dopo le brutte esperienze delle rivolte medievali, per avere in città una popolazione tranquilla i papi provvedevano, con doni e beneficenze, assistenze e favori, a mantenere gran parte della popolazione senza corrispettivo di lavoro: ne derivò una vita priva di stimoli che i romani hanno sintetizzato bene nel motto «tirare a campare».
Tutt'altro che rassegnato, il 1° novembre 1870 Pio IX promulgò un'enciclica per comminare «la più grave scomunica» contro tutti coloro che «insigniti di qualsivoglia dignità, anche degna di specialissima menzione, hanno perpetrato l'invasione»; lo stesso per «i loro mandanti, fautori, adiutori, consiglieri, aderenti». Insomma, Pio IX scomunicava il re, il governo, quasi tutto il parlamento. Secondo alcuni, con le parole «fautori» e «aderenti», scomunicava anche gli elettori. Nessuno pensò di reagire con le maniere forti. Tutti i governi e le ideologie che si sono succeduti da allora liberali, fascisti, democristiani, tecnici, sinistre - hanno ritenuto che l'Italia non possa essere governata senza il beneplacito del papa.
Il governo e il parlamento scomunicati offrirono al Vaticano delle garanzie, ovvero le «Guarentigie», approvate nel maggio 1871 e rimaste in vigore fino al 1929. La legge garantiva la piena indipendenza del Vaticano e un appannaggio annuo pari a circa il 5 per cento del bilancio del Regno d'Italia. Ma Pio IX aveva già pronta un'altra enciclica per far sapere che «Nessuna conciliazione sarà mai possibile fra Cristo e Belial, fra la luce e le tenebre, fra la verità e la menzogna». Di conseguenza i cattolici si appartarono dalla vita nazionale, era impossibile a un buon cattolico fare il sindaco, perché avrebbe dovuto celebrare matrimoni civili; né avrebbe potuto lavorare per un ente pubblico o privato nato da beni appartenuti alla Chiesa. Tanto meno poteva fare il deputato, perché il papa dispose che quelli cattolici aggiungessero al giuramento la formula «fatte salve le leggi divine ed ecclesiastiche»: ma se pronunciavano queste parole il parlamento invalidava la loro elezione.
Gli italiani dovevano scegliere: o il clero, unico intermediario con la vita eterna, o lo Stato, che deteneva le chiavi della vita quotidiana. La maggior parte cercò di accontentare entrambi i poteri senza credere davvero né all'uno né all'altro. Tutto ciò forse non danneggiò la loro anima, ma la vita civile sì: per decenni e proprio nel momento in cui, fatta l'Italia, c'era bisogno di uno sforzo collettivo per fare gli italiani. La lunga lotta dei cattolici allo Stato rafforzò negli italiani la diffidenza e l'insofferenza verso la collettività nazionale che è uno degli aspetti più tipici e deteriori del nostro carattere.
Il lungimirante Pasquale Villari - in un discorso alla camera del
1875 - ammoniva: «Il pensiero che più di tutti mi fa temere per l'avvenire, è che noi stiamo fabbricando una nazione di volterriani e di clericali». Quanto ai volterriani, la fabbrica ha avuto qualche problema di produzione.- dal lunedì al venerdì dalle ore 10:00 alle ore 20:00
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