Quando l'eredità familiare ha un peso che non grava soltanto sulle proprie spalle, ma anche sulla storia intera di un Paese, per uno scrittore è difficile farci i conti. Prima o poi però la decisione va presa: parlarne, con la presa di rischio morale che ne consegue, o tacere, soffiando sulle braci dell'ambiguità? Giorgio Zanchini, classe 1965, giornalista e saggista romano, conduttore radiofonico, ha optato per dare voce a fantasmi e ossessioni del passato con una forma particolare di autofiction storica: Sotto il radioso dominio di Dio (Marsilio, pagg. 222, euro 26) è il suo esordio e vede protagonista padre Pietro Tacchi Venturi, noto ai più come confessore del Duce, sì, e come «strumento normale» per i messaggi tra il Papa e Mussolini. Per Zanchini, però, Tacchi Venturi è prima di tutto un parente, il prozio del padre, il fratello della bisnonna, un pilastro del lessico famigliare con cui fare i conti, ogni giorno, per la vita. Prima del perdono s'impone l'indagine, prima dell'assoluzione, la ricostruzione: nel romanzo non ci sono risposte né rivelazioni, ma un doloroso percorso di scavo - condotto nella finzione dal personaggio radicale di Matteo, che analizza carte, lettere e diari del gesuita insieme alla più indulgente cugina Giulia - per appurare soprattutto se la figura cardine della propria famiglia sia stata o meno antisemita.
Come racconterebbe la trama del romanzo a un lettore che non conoscesse gli eventi storici?
«È un breve viaggio all'interno di una famiglia italiana, romana, nel corso del Novecento. Una famiglia in cui ad alcuni membri capita anche di essere protagonisti, minori o maggiori, di vicende storicamente rilevanti: il fascismo, il rapporto tra Chiesa e regime, la tragica spedizione italiana in Russia».
Come descriverebbe la figura ispiratrice?
«Il protagonista, o se non il protagonista senz'altro la figura più ingombrante del racconto, è Pietro Tacchi Venturi, segretario generale della compagnia di Gesù, tramite fra i Papi e Mussolini lungo tutto il Ventennio. Il suo ruolo durante il fascismo è stato rilevante, ambiguo, controverso. Attorno a quella figura e a quel ruolo si sviluppa il romanzo».
«Un luogo in cui regnava un ordine perfetto, fraternità e armonia, regolato da squilli di tromba e rintocchi di campane, sotto il radioso dominio di Dio»: il titolo è preso da una frase di Anatomia di un istante di Javier Cercas. Come mai?
«Riassume l'idea del mondo che aveva il colonnello golpista spagnolo Tejero. Un'idea secondo me non molto distante da quella di Tacchi Venturi».
Quali sono i lati ancora oscuri della biografia del suo prozio?
«Su di lui sappiamo già molto, gli storici sulla sua figura hanno molto lavorato e di recente i gesuiti hanno reso accessibili i suoi archivi, non a caso escono saggi che ne tengono conto. Sinché però non saranno desecretati tutti gli archivi di Pio XII, e gli studiosi non produrranno nuove ricerche, non sapremo fino in fondo quale sia stata la posizione di Papa Pacelli sulla questione ebraica, e consequenzialmente il ruolo di Tacchi Venturi».
Quali, invece, i falsi storici o i fraintendimenti?
«Non parlerei di falsi storici. Più che altro di disinteresse, di indifferenza. Per la figura di Tacchi Venturi, il che è già comprensibile. Ma anche per le responsabilità della Chiesa sulla questione ebraica e, peggio, sulle leggi razziali. Gli italiani temo facciano sempre un po' di fatica a discutere il proprio passato più scomodo».
In che cosa consiste esattamente una «educazione cattolica»?
«Tema enorme, e in continua evoluzione, su cui il romanzo fa intuire molto. Per le generazioni del primo Novecento la religione era davvero la bussola quotidiana, il progetto di vita, il baricentro delle relazioni. Oggi tutto è più lasco: la secolarizzazione mi pare un fatto compiuto».
Quando ha sentito parlare per la prima volta del suo prozio?
«Nemmeno lo ricordo più, ma è un nome che ha aleggiato nella mia famiglia da sempre. Quando sono nato, Tacchi Venturi era morto da dieci anni, ma il suo ruolo, il suo magistero, le sue parole, le ho sentite sin da bambino».
Come per Tacchi Venturi le parole di Giannetto, Giannettino e Pinocchio.
«Sono tra i primissimi libri che lesse, l'ho trovato in una sua biografia. Libri che consigliava alla gioventù, sconsigliando invece quelli dell'irreligioso De Amicis».
Quali difficoltà ha incontrato a esordire con una vicenda così personale?
«Ho cercato di chiarire questo punto nella postfazione, per far capire come io sia sospettoso nei confronti dell'autofiction e come preferisca usare altri strumenti per elaborare una materia che può avere tratti autobiografici. Devo dire che un po' di preoccupazione per le reazioni dei parenti le ho».
C'è una sentenza di Tacchi Venturi che
citate spesso tra voi in famiglia?«Una frase terribile: Non siete venuti al mondo per divertirvi, ma per lavorare per la gloria di Dio e della Santa Chiesa. Devo dire che mio padre e i miei zii la usavano ridendo».
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